Vicine e lontanissime a seconda degli eventi o degli opportunismi del momento Torino e Milano sono egualmente interessate come ogni città italiana, ad una legge definita imprudentemente “Salva Milano”.
Con il numero 1309 questa proposta legislativa è in attesa di essere votata al Senato per l’approvazione dopo aver ricevuto parere favorevole alla Camera. Su Change.org un appello firmato da 140 professori universitari, urbanisti, giuristi, costituzionalisti, economisti, storici, sociologi e geografi insieme ai cittadini chiedono di non firmare questa disposizione di legge.
Tutto nasce a Milano dove diverse inchieste sull’urbanistica stanno paralizzando la città. Oltre 150 i cantieri fermi, 40 i dirigenti che hanno lasciato il Comune, 35 miliardi di euro gli investimenti a rischio. Le inchieste della procura constano di 14 fascicoli aperti per abusi edilizi, lottizzazione abusiva e falso.
Al momento gli indagati sono dodici. Tra questi vi sono funzionari e dirigenti comunali. Rilevante per il capoluogo sabaudo la presenza dell’ex membro della Commissione paesaggio Paolo Mazzoleni – già coinvolto in altre due indagini e oggi assessore all’Urbanistica di Torino.
L’appello recita: “Una legge-condono che stravolgerà le regole urbanistiche e lascerà mano libera ai costruttori cancellando tra l’altro l’obbligo di pagare i giusti oneri di urbanizzazione, comportando una riduzione di “verde e servizi per la città, edilizia sociale, parcheggi, marciapiedi, piste ciclabili, parchi, scuole, biblioteche. Uno spazio urbano che potrà essere occupato da edifici senza un disegno unitario, senza un piano, senza una visione di città, se non quella degli operatori e dei fondi immobiliari.
Per avere una lettura più chiara degli eventi abbiamo avuto l’autorizzazione dalla testata Doppiozero e dall’autrice di ripubblicare parte dell’intervento di Elena Granata, professoressa di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile.
Eccolo:
“La legge passata alla Camera (che contiene anche il cosiddetto decreto Salva Milano) opera un improprio sovvertimento di senso: uniforma i vari casi sotto la voce rigenerazione e cancella, di fatto, ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, tra ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica; vengono resi inutili gli strumenti di accordo tra pubblico e privato per orientare la collocazione dell’edificio nel contesto, per integrare il nuovo progetto con la città esistente in modo funzionalmente ed esteticamente congruo.
La legge sana gli interventi degli ultimi dieci anni (a partire dal 2013, D.L. 98 – decreto del fare) ma si rivolge anche al futuro e soprattutto si estende su tutto il territorio nazionale, rischiano di esportare il pessimo “modello Milano” in tutta Italia.
Nel testo, ancora in fase di emendamenti e che deve passare ancora al Senato, si promette una nuova legge di riordino della materia da qui a sei mesi. Tuttavia, nel frattempo, la legge sarà già entrata in vigore per tutti. Che succederà allora?
La città e la tragedia dei beni comuni
Se gli equilibri urbani vengono compromessi, se le densità e le altezze vengono alterate, il rischio è che la città perda non solo in qualità (e vivibilità) – dovremmo ricordarci quante volte richiamiamo nella narrazione comune la Bella Italia delle città – ma anche in valore economico e capacità attrattiva. Stupisce che un mero ragionamento di convenienza economica non consideri questo aspetto.
Come scriveva Garrett Hardin alla fine degli anni Sessanta, “la rovina è la destinazione verso la quale ogni individuo corre, se mosso esclusivamente dal suo interesse personale” riferendosi alla tragedia dei beni comuni, ossia quella naturale fragilità dei beni condivisi tra tante persone. Nel nostro caso, la risorsa comune è proprio la città, e il suo sovrasfruttamento – purtroppo inevitabile quando si agisce senza considerare gli interessi collettivi – porta al suo deterioramento. Col tempo, questo bene diventa sempre più raro e prezioso, ma la tentazione di sfruttarlo ulteriormente cresce, accelerando così il processo di distruzione.
Quale crisi culturale profonda si cela dietro un approccio così insensato, incapace di proteggere le dimensioni estetiche, sociali e ambientali delle nostre città?
Lo ricondurrei a una più ampia crisi della sfera pubblica. Da tempo i partiti – anche quelli di sinistra, che per decenni hanno rappresentato le battaglie sociali – hanno spostato il loro focus dai diritti collettivi a quelli individuali. Oggi tutto ruota attorno all’individuo, privo di connessioni, di comunità, di un contesto condiviso. È un processo di impoverimento delle comunità, di contrazione dello spazio del “comune”, di privatizzazione dei luoghi pubblici, che si riducono a spazi di consumo. Siamo sensibili alla salute, ma non ci mobilitiamo per difendere la sanità pubblica. Siamo preoccupati per l’educazione, ma non ci impegniamo per salvare la scuola. Curiamo il nostro benessere, ma non facciamo nulla per proteggere l’ambiente.
La mancanza di una dimensione collettiva è oggi un problema cruciale, perché le grandi sfide che ci aspettano – da quella energetica (la necessità di produrre e consumare energia in modo diverso) a quella climatica (la lotta per mitigare gli impatti del cambiamento climatico), passando per la crisi sanitaria (rendere il diritto alla salute davvero universale) – richiedono proprio la capacità di convergere verso obiettivi comuni. Ci vogliono competenze di sintesi capaci di integrare istanze di crescita con la sostenibilità e le domande sociali“.
Straniante e inquietante come questo argomento venga sottaciuto, evitato, escluso da ogni dibattito nella sommersa Torino al contrario della forse salvata Milano. Eppure se la legge passasse e divenisse attuabile le conseguenze sarebbero imprevedibili e senza possibile embargo.