“Il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi’’. W. Shakespeare
Il dolore ha bisogno d’esprimersi, come un bimbo che piange appena nato: guai a volerlo zittire. Una buona parte della creazione artistica nasce come reazione al dolore e tutti alla fine, volenti o nolenti, ci confrontiamo con il tema del dolore e della morte. Io l’ho (ri)fatto pochi mesi fa, dovendo affrontare la morte di mia madre che ci ha “lasciati”, rendendo tutto più vacuo e, almeno in apparenza, privo di senso.
Con questo stato d’animo incontro e ascolto il racconto di Cristiana Voglino su Ante scena, Associazione composta da volontari, provenienti dal mondo dello spettacolo e da quello educativo. Ante Scena realizza progetti di sostegno per i bimbi ricoverati nei reparti di lungodegenza del Regina Margherita e del Martini.
Cristiana, tra le fondatrici dell’Associazione, ha raccontato la sua esperienza nel libro “Aiutami a non avere paura”. Il titolo riprende la frase pronunciata da un piccolo paziente alla sua fisioterapista: una richiesta d’aiuto, risuonata con forza in chi, come Cristiana, ha vissuto l’esperienza di una figlia malata in ospedale e della perdita del marito per cancro.
Nel volume sono raccolte le testimonianze di genitori, medici, operatori sanitari e tutti quelli che si sono impegnati a fare ‘rete’ intorno ai piccoli degenti, oltre che le osservazioni, le frasi e i disegni degli stessi bambini. La paura, che unisce genitori, operatori, medici, bambini e le strategie per affrontarla, fa da filo conduttore al libro.
La mia prima domanda risuona quindi naturale, persino ovvia: Come si fa a non aver paura?
L’unica soluzione é ammettere d’averla. La prima cosa da fare, la principale, è mettersi in contatto con le paure più profonde che abbiamo e cominciare a chiamarle con il loro nome. Tutti abbiamo una paura, quella della morte in particolare.
Questo avviene soprattutto in Occidente, dove abbiamo più difficoltà a considerare che la fine vita sia parte “naturale” di un processo. La “naturalezza” della Morte era riconosciuta nella società contadina, ma oggi non è più cosi.
Quando ho iniziato a scrivere il libro, ho chiesto a molte persone “cos’è che ti fa paura?” e quasi tutte hanno risposto “la morte”. Solo una persona mi disse che soffriva di paura della malattia più che della morte. Con le esperienze che ho avuto in seguito, soprattutto con la malattia di mio marito, ho capito che anch’io avevo paura soprattutto della malattia.
Ci vuole molto tempo per “accettare” la malattia, imparare a convivere con la stessa: prima dobbiamo fare i conti con la rabbia e la depressione. Non negare la malattia è il primo passo per affrontarla, superarla e in parte vincerla. Un atteggiamento utile non solo per chi ha il cancro, ma anche per chi deve affrontare una grande prova nella vita. La domanda che mi faccio, di fronte alla sofferenza, è : fino a che punto è giusto cercare di allungare la vita e a quali condizioni? È una domanda che non prevede una risposta univoca perché ogni caso è a sé stante.
L’accudire, la protezione, la compartecipazione affettiva è sempre importante: se abbiamo davanti una persona molto sofferente e senza prospettive di guarigione, una persona preparata al passaggio, che ha potuto salutare le persone care, allora forse, a quel punto, sarebbe giusto lasciarla andare. Ma resta difficile, praticamente impossibile, e comunque non corretto, dare una risposta valida per tutti.
Oltre al rapporto con il paziente e con la paura c’è anche quello con i familiari che spesso, davanti al dolore, mostrano difficoltà a gestire la situazione. Hai avuto delle esperienze in tal senso?
Sì, e in questo ho notato un’enorme differenza tra ciò che si vive in un ospedale infantile e ciò che avviene in ambito adulto. Mi ricordo che quando lavoravo come educatrice professionale tra noi educatori dicevamo spesso: con i ragazzi non ci sono particolari problemi di rapporto, ci sono molto di più tra adulti, siano essi colleghi o familiari. Tra pazienti e familiari si presenta spesso una criticità: questi ultimi non di rado hanno difficoltà nell’elaborare la paura e quindi non riescono sostenere efficacemente il malato; mettono in primo piano il loro personale dolore, che gestiscono a fatica.
“Sos-tenere” invece significa sorreggere, saper sostare accanto alla persona malata, tenerla per mano, creare un legame, mettersi in gioco. Assistere e supportare il paziente implica condivisione, in primo luogo della paura. Quando non è permesso o possibile condividerla con il malato è importante farlo con gli adulti che lo curano: prendersi cura di chi soffre, implica anche condividere il proprio dolore. Perché non bisogna, essere soli quando si soffre.
C’è a volte la tendenza di alcuni familiari o amici a “negare” la malattia a cercare di sostenere il paziente infondendo ottimismo esagerato con il rischio di sminuirne la sofferenza. Cosa ne pensi?
Le attività di cura e sostegno per i pazienti assumono senso e forza quando si è disposti a mettersi in gioco, a condividere. Anche qui il primo passo è accettare la realtà, non negarla, riconoscere per esempio che in certi casi la guarigione non è contemplata. Imparare ad accettare la diagnosi, ma anche la prognosi. Ciò che più serve, a pazienti e familiari, nella realtà di tutti i giorni è il coraggio. L’obiettivo condiviso, se la guarigione non è possibile, dovrebbe essere aumentare la qualità della vita del paziente, e sostenerlo per il tempo che ha davanti.
Un sostegno psicologico al nucelo familiare puo’ essere utile secondo te ?
Si perché pure i familiari sono vulnerabili di fronte alla malattia: purtroppo però il sostegno psicologico, che in ambito educativo è considerato parte integrante del percorso, in casa o all’Ospedale non ottiene ancora lo stesso riconoscimento.
E nel nucleo familiare, che oggi è spesso disgregato, non è facile confrontarsi su certi temi, cosicché si finisce per avere visioni diverse, a volte contrastanti, su come rapportarsi alla malattia. Alla fine, spesso, il caregiver si fa carico, oltre che del rapporto con il paziente e i medici, anche delle eventuali difficoltà con i familiari, assumendosi un doppio peso.
Quanto è importante l’uso di un linguaggio adeguato in situazioni di cura?
È fondamentale ma non è solo un problema di termini. Operatori e familiari non sempre chiamano le cose con il loro nome, per non turbare l’emotività del paziente e questo non aiuta a vincere la paura che va sempre affrontata, seppure con gradualità.
Gli stessi medici dovrebbero essere maggiormente aiutati nel trovare il giusto livello di comunicazione a seconda del fatto che si trovino con bambini o adulti. Spesso ho percepito una notevole differenza tra l’ambito infantile e quello adulto. Con i bambini è per certi versi più facile: loro sono molto diretti, e quando devono fare una domanda la pongono “nuda e cruda”.
Così è successo con un bimbo che chiese all’improvviso alla sua maestra ospedaliera: “Ma il Giubileo esiste anche per i bimbi?” spiegando poi d’ essere preoccupato che i suoi genitori spendessero tanti soldi per il suo funerale. Chi assiste un parente, tanto più se terminale, deve affrontare la Paura, guardare in profondità e saper trovare una risposta, che non è mai valida per tutti.
La capacità di rispondere, e di sopportare l’onda d’urto di fronte agli eventi – la cosiddetta resilienza – è strettamente personale.
Qual è il ruolo delle emozioni in situazioni del genere? Quanto pesano, se pesano, e quando possono aiutare?
C’è chi dice che occorre “tenere a bada” le emozioni, ma questo non vuol dire non lasciarle uscire, piuttosto indica che bisogna saper aspettare il momento giusto per esprimerle. Certo non è facile. Di fronte a una persona malata sono tutti un po’ equilibristi, sospesi sopra un baratro (io ero stata definita “la funambola del Tibet”). Occorre cercare l’equilibrio in ogni istante della propria vita. Nel mio caso sono stata aiutata dalla formazione teatrale e dall’abitudine a dare voce alle emozioni considerando anche quando, dove e con chi farle uscire.
Mi è capitato spesso, quando potevo uscire dall’Ospedale, di trovare in macchina il luogo e il momento più adatto per urlare il mio dolore. Nella mia esperienza, è stato fondamentale sapere di poter contare su alcune persone con cui potermi lasciar andare.
In questo ho avuto un grande supporto e un esemplare sostegno dai miei colleghi e Amici di Assemblea Teatro. Sul palco inoltre ho potuto elaborare la rabbia, il senso di vuoto, lo smarrimento provato, arricchendo i personaggi che interpretavo. Da queste mie esperienze ho appreso cosa significhi essere autentici. È stata l’uleriore conferma di quanto il teatro possa essere terapeutico.
http://www.antescena.it/aiutamianonaverepaura/
Giuseppe de Paoli