Dalle parole della direttrice Carolyn Christov-Bakargiev, Dalle Bombe al Museo, visitabile sino al prossimo 14 maggio, la mostra “parla della ricostruzione della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino negli anni cinquanta del secolo scorso, dopo i danni subiti dalle opere e dall’edificio – il padiglione Calderini – che ospitava le collezioni civiche d’arte, colpito nel 1942 da un bombardamento alleato e ridotto in macerie, così come alcune opere che non era stato possibile mettere in salvo. Il conflitto liberò il paese da una dittatura ma a costi altissimi per il patrimonio architettonico e artistico, rovinato dalla guerra”.
Dalle bombe al museo, a cura di Riccardo Passoni e Giorgina Bertolino, ripercorre l’itinerario di rinascita dell’arte moderna in Italia attraverso la storia della ricostruzione della Galleria – progettata da Carlo Bassi (1923) e Goffredo Boschetti (1923-2013 )- all’epoca solo trentenni, durante la direzione di Vittorio Viale (1891-1977).
Inaugurata dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 31 ottobre 1959 (che al mattino aveva visitato il Museo dell’Automobile), la nuova GAM costituì una vera rivoluzione, non solo architettonica, nell’Italia del tempo, come ricordano anche i quotidiani di quei giorni: il museo si sviluppa in tre corpi (l’ala delle collezioni permanenti, quella delle mostre temporanee, il blocco con la sala conferenze e la biblioteca),le pareti esterne sono inclinate e, cosa maggiormente straniante, per non dire eccentrica, per una Torino profondamente cartesiana, l’edificio si inserisce diagonalmente nell’isolato, seguendo l’asse eliotermico, un principio che i progettisti adottano per intercettare la luce solare e per ricavare a terra un giardino. Interessante scoprire che ai torinesi -incuriositi e perplessi dal progetto- Luigi Carluccio ricorda, dalle colonne della “Gazzetta del Popolo”, che anche al Guggenheim Museum di New York, firmato da Frank Lloyd Wright e appena aperto nello stesso anno 1959, i muri sono “ciechi” e “sghembi”, sviluppati “su un percorso a spirale, a guscio di chiocciola”.
Le oltre 60 opere esposte, che includono grandi capolavori del secondo dopoguerra di ambito nazionale e internazionale acquisiti in quegli anni, sono intercalate da fotografie d’epoca, da un’ampia selezione di tavole e disegni d’architettura, lettere e documenti originali, sino alla indovinata proposta di restituire visibilità agli arredi originali della galleria con allestimenti (le pareti mobili), forme e materiali del tempo, dagli oggetti (incluso il telefono di bachelite di Vittorio Viale) alle “sale di riposo” con morbidi tappeti in moquette, poltrone e tavolini su cui disporre i posacenere (perché sì, ricorda la direttrice, si fumava nei musei!) sino alle le sedie di Giò Ponti ancora oggi in dotazione alla biblioteca.
Inizia il percorso, dopo la toccante testimonianza delle opere danneggiate (in particolare il mutilato il bacio di Giuda, scultura di Ettore Ximens) e sopravvissute ai bombardamenti al Padiglione Calderini, l’opera Dans mon pays, 1943 di Marc Chagall (1943) primo lavoro dell’artista acquisito alla Biennale di Venezia del 1948, seguita dalle importanti acquisizioni nelle rassegne “Pittori d’Oggi. Francia Italia”, a partire dal 1951 con opere di Hans Hartung (Composition T 50-5 (T, 50-5), 1950 scelta come immagine guida della mostra, e Alfred Manessier, esposte in mostra. Tra gli altri, opere di Hans Jean Arp (Scultura di silenzio “Corneille”, 1942), Giacomo Manzù (Ragazza seduta, 1948), Emilio Vedova (Dal ciclo della natura n. 9 (spaziale = invasione), 1953), Pinot Gallizio (La cicogna, 1957), e ancora Mastroianni, Chillida, Afro, Accardi, Carol Rama.
Un’operazione della memoria, più che una operazione nostalgia, come sarebbe più facile e banale leggerla (anche alla luce della volontà del tempo di investire in cultura, a partire dalle importanti acquisizioni promosse da un lungimirante e coraggioso Vittorio Viale, che acquisiva opere ancor prima di avere gli spazi) che oggi deve essere reinterpretata alla luce della nostra contemporaneità. Carolyn Christov-Bakargiev sottolinea come “le opere esposte dimostrino i danneggiamenti subiti e allo stesso tempo testimonino come gli oggetti possano perdurare e siano esempi simboli feriti di sopravvivenza. Conservati nei depositi da oltre 70 anni riappaiono oggi silenti ma colmi di domande. Questa mostra si domanda, anche da un punto di vista psicanalitico, quali forme d’arte in una società siano capaci di elaborare il dramma di un conflitto per trasformarlo in una energia propositiva. Il problema della distruzione dell’arte in tempo di guerra è sempre stato presente ma ha acquisito una dimensione nuova a partire dall’inizio del XX secolo con i bombardamenti aerei, ed è oggi, di stringente attualità.
Cresce anche il concetto di protezione: i beni non appartengono ai singoli stati ma a tutta la comunità. Molte opere del secondo dopoguerra le leggiamo oggi non come una forma di astrattismo (corrente alla quale sono da sempre riferite) ma bensì come una forma figurativa delle macerie: un contesto reale che diventato astratto.”
Un insegnamento di stringente attualità: se le avanguardie nascono come risposta alle crisi, l’esempio della GAM costituisce una risposta proattiva e resiliente ad un momento di distruzione e rinascita che aveva coinvolto uomini, cose, persone. Un esempio che fu colto in tale portata anche dai torinesi dell’epoca, come ricorda lo storico Giuseppe Berta nel suo saggio all’interno del catalogo che accompagna la mostra: Il professore Berta rievoca il consenso dei torinesi che in quell’anno e in quelli a seguire affollarono le nuove sale con curiosità, nella volontà, neanche troppo inconscia, di trasformare la deformità della guerra in una idea propositiva verso il futuro.