Ovvero la lotta impari tra il lettore e la grande editoria
La questione dell’auto-plagio di Scurati, finalista al Premio Strega, ha risvolti inaspettati in ogni senso. Se da una parte la notizia riportata in origine dalla rivista web Satisfiction ha raggiunto la Federconsumatori, che ha chiesto chiarimenti a riguardo alla Rai e all’Agcom, dall’altra sembra che a nessuno importi tranne che a una serie di lettori che solitamente si incontrano on line. Quelli che hanno condiviso per primi l’articolo e quelli che lo fanno ora, quelli che hanno iniziato a discutere sulla reale portata della faccenda. O le faccende, perché nel frattempo altre coincidenze bizzarre sono state riportate da Gian Paolo Serino, che di Satisfiction è il direttore e fondatore. (http://ilgarantista.it/2014/06/18/premio-strega-piccolo-piccolo-ce-gia-il-vincitore/ ) Oltre a questi, però, nessuno pare commentare o intervenire, prendere una qualsivoglia posizione. Tranne uno: Michele Serra (http://ilgarantista.it/2014/06/23/premio-strega-piccolo-piccolo-serra-si-offende-ma-ci-da-ragione/ ).
Al di là della questione che riguarda strettamente il Premio Strega, sul quale da anni gravano voci e dissensi, credo che la riflessione vera e propria vada fatta sulle due figure ormai contrapposte del lettore – sempre più considerato come un consumatore – e dell’editore, soprattutto quello “importante”. Le colpe, le responsabilità, i meriti quando ci sono.
Parlando con alcuni “addetti ai lavori” legati al top dell’editoria mi è parso subito chiaro che la questione dell’autore che copia e incolla i suoi stessi testi da un romanzo all’altro per loro non sia interessante. Come a dire « è roba sua, può farci quel che vuole, che c’è di male?» e liquidare con un’alzata di spalle i risvolti negativi di questa storia. Che sarà mai?
Invece è mia opinione, come è anche di altri appassionati di lettura, che il fatto sia grave e che lo sia non solo per un premio letterario su cui da anni gravano sospetti ma anche per la fiducia in quella che fino a qualche tempo fa è stata considerata come una elite che produceva un bene. Negli ultimi anni, l’industria del libro si è allontanata dalla sua funzione di veicolo di cultura nel nome di un guadagno sempre maggiore per rimanere soltanto “industria” pronta a chiudere un occhio su magagne e strafalcioni pur di vendere copie.
Uno dei sospetti, anche, è che l’idea dell’auto-plagio sia nient’altro che una trovata pubblicitaria atta a far parlare, ancora, sia del Premio Strega sia dell’autore in questione che giusto con il romanzo da cui ha copiato era in lizza per lo stesso riconoscimento quattro anni fa. Un gesto che può apparire come una specie di rivalsa (sì, i giudici sono più o meno sempre gli stessi, quindi la sfida a riconoscere o meno uno o più passaggi di un romanzo nell’altro potrebbe esserlo), ma che sembra più che altro un semplice tentativo di far parlare di sé. In fondo, bene o male che si faccia, l’importante è parlarne, magari vendere qualche copia in più dell’uno e dell’altro libro. Per curiosità, noi lettori siamo animali particolari, consumatori fino al midollo e pronti ad acquistare qualsivoglia schifezza solo perché se ne è sentito parlare ovunque. Per questo sembra sospetto il mancato ritiro del romanzo dal Premio da parte dell’editore – l’autore certo non intende ritirarsi – o almeno un richiamo pubblico allo scrittore. Questo lo rende complice.
Intendiamoci, a me non importa se anche il signor Scurati volesse riproporre lo stesso medesimo romanzo ogni anno con un titolo diverso; a me basta che sulla copertina ci sia scritto che il romanzo non è del tutto originale. L’editore dovrebbe garantirmi, nel momento in cui io pago 17 Euro per acquistare un libro “nuovo”, che il mio volume sia nuovo sul serio. Non un patchwork di brani estratti da altri romanzi,chiunque li abbia scritti. E non mi importa che si tratti di … quante? … venti, trenta righe in tutto, rigirate in tempi e in soggetti (ma la differenza tra un mi e un gli e un presente e un passato non è così importante) e con qualche aggiunta o sottrazione. Vorrei saperlo prima di acquistare il libro. È un mio diritto nel momento in cui acquisto il “nuovo romanzo” di Tizio o Caio.
Ecco, se l’editore non è in grado o non ha interesse nel tutelarmi io perdo la fiducia e smetto di acquistare i suoi prodotti. Come capita quando esplode un caso di alimenti contraffatti. Niente di più e niente di meno.
L’immagine che ho dell’editoria vecchio stile, che ogni anno pare perdere il 7% del fatturato e che ciononostante non si pone alcun quesito sul perché, è quella di un dinosauro riapparso in un’epoca che non è la sua. Un enorme Godzilla che non capisce dove si trova e come procurarsi il cibo, come sopravvivere e che non ha la capacità di adattarsi al nuovo mondo. O non vuole, perso nella sua autoreferenzialità e nel suo mondo al di fuori del mondo. Un colosso le cui leggi interne hanno portato al disastro il settore e che ciò nonostante continua imperterrito a ritenersi forte. Le colpe ricadono sulla crisi, sulle istituzioni, sui social network, sulla televisione, sul digitale.
È vero che il modo di leggere è cambiato molto e che siamo in un periodo di passaggio, delicato, in cui editori, autori e librai si chiedono in che direzione muoversi. È vero che i dati su un analfabetismo di ritorno sono preoccupanti, lo è anche il fatto che leggere non è mai stata un’occupazione di massa e che i giovani non hanno grandi stimoli. Forse, però, la risposta non sta nel pubblicare “qualsiasi cosa” sperando di incontrare il gusto del pubblico. Ho idea che se si offre a un “lettore poco dotato” un libro adatto a lui in modo che legga, quel lettore resterà poco dotato a vita perché si abituerà a trovare libri alla sua altezza. Una maggioranza di lettori medi necessiterà di libri mediocri e alla lunga addio cultura.
Forse allora, se vogliamo libri migliori toccherà diventare dei lettori consapevoli e imparare a scegliere quelli per cui vale la pena di spendere dei soldi. Impugnare la fionda e far cambiare strada a Godzilla prima che abbatta la città, prima che sia tardi. La forza del piccolo contrapposta alla mole preistorica del grande che intende solo divorare il possibile senza curarsi delle conseguenze.