Demetrio Paparoni è un curatore internazionale, scrittore, insegnante, giornalista, un esperto d’arte contemporanea ma soprattutto conosce ciò che intorno al mondo dell’arte gravita. Lo abbiamo intervistato poco prima di un incontro pubblico con il Direttore degli Uffizi Eike Schmidt sul controverso tema dei social media e la strategia culturale di un museo. Temi che troveranno spazio nella nostra conversazione
Vorremmo una tua panoramica su cosa in questo momento funziona, piace, cattura, ingaggia il pubblico; vorremmo che ci dicessi che cosa il pubblico ha voglia di vedere?
Ma la percezione che ho io è che il pubblico preferisce le mostre di grandi nomi affermati.
In genere sono mostre realizzate con grossi investimenti. Investimenti che naturalmente non vengono sostenuti dai musei, ma che vengono principalmente sostenuti dalle gallerie che promuovono questi artisti. Insomma, il gioco è abbastanza semplice, se una galleria devo vendere delle opere di un’artista che costa 1.000.000 di dollari, deve, dato che non ha il conto deposito, e chiarito che generalmente le opere non le ha acquistate, chiede all’artista di concedergliele per la vendita. Quindi qualcosa deve offrire, operazione che possono permettersi solo le gallerie più importanti.
Questa potenza di fuoco che le gallerie hanno permettono all’artista, tra virgolette importante, di poter fare cose che gli altri non possono fare.
Significa che, per esempio, se un artista è ben sostenuto da una galleria, chiede di scoperchiare il soffitto di un museo e magari lo ottiene, perché poi hanno le disponibilità per ripristinare tutto. Se invece lavorano con artisti che, diciamo, che non hanno questo potere contrattuale che è dato dal mercato, sono sono costretti a fare delle mostre che sul piano della spettacolarità non possono competere.
Questo da una parte, per quello che mi riguarda, io avverto una grande esigenza di vedere pittura, pittura fatta bene.
All’artista oggi non è richiesto di saper dipingere o di possedere chissà quale grande tecnica, all’artista è richiesto di presentarmi qualcosa che funzioni. Che incarni un significato. Poi chi l’ha fatto, lo ha materialmente realizzato, non ha importanza perché l’artista può anche essere semplicemente un regista. Io mantengo una predilezione per quegli artisti che invece sanno mettere in gioco una tecnica con una propria abilità, ma questo non significa che la tecnica che rende l’opera interessante, la tecnica è al servizio di un’idea espressiva.
Un’artista tecnicamente molto dotato può fare delle opere non interessanti, mentre un’artista poco dotato tecnicamente può fare delle opere molto interessanti. Insomma, il caso emblematico è Cattelan.
La la polemica che è emersa, con tanto di processo, e di cui avevo previsto il finale dice molto su ideatore e realizzatore. Questo processo ha messo in moto un meccanismo tale per cui sono adesso tanti gli artisti che hanno degli atelier con tantissimi assistenti che si stanno tutelando.
Prima il rapporto era più tranquillo, era più libero.
Adesso, dopo tutte queste cause che riguardano anche la musica, è nota la causa avviata dal bambino che appare sulla copertina del disco Neverland dei Nirvana, che ha fatto una causa dicendo che era stato usato. Che aveva avuto la vita rovinata da questo apparire nudo nella copertina. Dopodiché si è scoperto durante il processo, che si era tatuato il titolo dell’album sul petto che si faceva le foto nella stessa posizione e insomma sfruttava questa forma di notorietà.
Succede è che quando si sa che un’artista guadagna milioni e milioni di euro, qualcuno prova a sfruttare la situazione. Il fenomeno che queste cause mettono in evidenza, il pubblico probabilmente non lo sa, è dato dal fato che non tutte le opere che i grandi artisti presentano sono realizzati manualmente da loro ed è un dato di fatto
Se ripercorriamo il corso della storia, avveniva già nella bottega medievale e rinascimentale. Allora il sistema non ruotava attorno all’idea del genio. L’idea del genio spunta nel 400.
Comunque, faceva sì che venissero fuori degli artisti importanti dalla quel tipo di lavoro, di scuola.
Ad esempio. Per tornare al passato recente, la Factory è stata un esperimento dove tutto ruotava attorno a Warhol però venivano fuori dei personaggi. Oggi dopo quell’esperimento non c’è nessun modello similare. Negli studi delle star di oggi ci sono degli assistenti che sono perfettamente anonimi e che devono tali devono rimanere. All’assistente è richiesto di di non essere, si deve annullare.
Mi ha colpito la storia di un artista. Mi aveva comunicato eccitatissimo di essere stato consultato da una galleria. E lui era convinto che questa galleria fosse seriamente interessata visti i complimenti per il suo lavoro. Dopodiché quando si incontrarono di persona, gli hanno chiesto se voleva fare l’assistente di un altro artista importante. Ha rifiutato.
Ma questa storia la dice lunga sul funzionamento di alcuni meccanismi. Perché si arriva a pagare la creatività per farla scomparire e non per farla emergere.
Cosa ne pensi di quei musei che hanno avuto allure, pubblico, fama, eccetera e vivono, purtroppo un evidente declino. Il Castello di Rivoli è uno di questi, ma come lui in Italia ce ne sono tanti.
Evito accuratamente di fare nomi, nel senso che lo troverei sgradevole, perché è un discorso generale. Inoltre il mio mestiere non è fare il castigatore.
Si chiede per capire il problema non per puntare il dito.
C’è stato per un certo periodo in Italia, soprattutto negli anni 70, 80, in cui era in voga tirare la linea sulla lavagna, dividendo buoni da una parte e, chiamiamoli, cattivi dall’altra.
Io non ho mai avuto questa questa visione. Il fatto di avere lavorato è stato anche frutto di incontri, io ho lavorato con artisti importanti che ho conosciuto prima che diventassero così famosi.
Ci tengo a dirlo. Una volta era facile rincorrere nomi grossi. Oggi è diventato molto, molto più difficile, però obiettivamente quando io ho iniziato era facile perché c’era la disponibilità degli artisti a fare le cose. Ecco, bussare alla porta gli artisti come Vedova, Merz, Kunellis, come Pistoletto era possibile. Ti presentavi come un giovane alle prime armi, e nonostante ciò ricevevi ospitalità, cioè venivi preso in considerazione. Questo oggi non accade più. E’ inimmaginabile.
Ritengo che il successo di un museo pubblico lo si deva al suo direttore. Poi è ovvio che ci sono tanti fattori che entrano in ballo, come i budget o la posizione geografica. Resta vero che quando una mostra mi interessa non ho problemi a mettermi su un treno e affrontare un viaggio per andarla a vedere.
Non voglio avere la presunzione di dire che comunque il capitano del battello determina il numero dei visitatori però è un fattore determinante.
Se consideriamo, per esempio, cosa è successo agli Uffizi, che è proprio il tema dell’incontro di oggi, anche se stiamo parlando di uno dei musei più importanti del mondo. Però si vede la differenza di di pubblico che c’è tra il precedente direttore e il direttore di oggi, se si considera che cosa è successo da Heike Smith in poi ci si rende conto che nella stessa città, nello stesso luogo, con le stesse opere il pubblico è aumentato notevolmente.
Questo vuol dire che non solo si deve essere in grado di fare delle buone mostre, di avere buona qualità di opere da mostrare, ma si deve essere capaci di mettere in moto, di generare dei meccanismi virtuosi. Lo straordinario risultato degli Uffizi è evidente, è passato ad avere 1.000.000 a 1.700.000 visitatori l’anno. Adesso ha superato addirittura il Colosseo. Con il Colosseo è sufficiente mettersi lì davanti alla porta e staccare il biglietto. Molto dipende dal direttore del museo.
Questo vale per ogni tipo di museo compreso quello contemporaneo.
Non basta avere una collezione eccezionale, Leonardo, Tiziano Raffaello.
Perché se tu, per esempio, presenti le opere come se fossero in un luogo polveroso e vecchio il pubblico non è incoraggiato ad andare a vedere. Se invece crei una rivoluzione nell’installazione. Pensiamo alla sala dove c’è il tondo Doni di Michelangelo.
Vi sono state molte polemiche per il modo in cui il tondo è stato presentato, tuttavia ne è sorta una grandissima pubblicità, poi unita alla capacità di coinvolgere degli influencer , utile per attirare i giovani. E come diceva Totò, è la somma che fa il totale o non so se è il totale che fa la somma.
Quello che mi sta a cuore è che ci siano più persone che visitino i musei. Se si deve dire grazie a un influencer, perché no, se si dimostra utile per creare una coscienza artistica maggiore nel nostro paese ben venga.
Un’ultima cosa. Se tu potessi essere, diciamo il consulente del prossimo ministro che si dedica alla cultura, alle arti visive. Che cosa proporresti?
Io fondamentalmente sono un liberale, quindi essendo io un liberale sono per i poteri che si controbilanciano e l’autonomia della cultura è fondamentale. Quindi le nomine dei direttori dei musei dovrebbero avvenire con dei criteri tali, da non far nominare chi è più simpatico, all’uno o all’altro politico, ma diciamo con dei criteri oggettivi.
Soprattutto perché c’è un museo museo, e ognuno deve avere la sua specificità. Non si può chiedere al Louvre di fare la la la sperimentazione
Al Louvre si chiede altro.
Quindi l’autonomia della cultura sulla politica?
Chi ha un posto politico anche se dovesse essere un raffinato intellettuale, dovrebbe tenersi fuori da quelle che sono le scelte culturali dei direttori dei musei.
Non si può pensare che la politica influenzi la linea culturale di un paese, quando questo avviene, noi siamo già all’interno di un sistema fascistoide.