Non ci si può esimere dal portare sincero omaggio per il suo lavoro a Carlo D’Oria. Esempio encomiabile di paziente e tenace dedizione all’arte e in particolare alla peculiarità operativa scelta: la scultura.
Torinese, classe 1970, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Torino, oggi insegna in quella di Firenze, nel frattempo tantissime partecipazioni ad esposizioni, collettive e personali, importanti opere pubbliche, attenzione di curatori e collezionisti e una personale in chiusura il 17 novembre nelle grandi sale della Fondazione 107.
Posta lontano dal glamour brillantato dalla settimana dell’arte, anche per la collocazione over periferica della Fondazione, uno spazio strepitoso incastrato in Via Sansovino 234, non agevolato da trasporti pubblici, ristoranti chef/chic, o altre fonti di attrazione contemporary cool , ha spalancato le sue grandi campiture di ex fabbrica ad una personale, rara avis, di singolare potenza, intensità e trattenuta poesia di Carlo D’oria.
Letterariamente sostenuta da un titolo, citazione, ammirabile e calzante alla perfezione estrapolato da un libro di Javier Marias, a sua volta desunto dal Riccardo III di Shakespeare, curata da Roberto Mastroianni, presenta un ciclo di sculture in cui D’Oria rinnova l’età del ferro, la durezza medievale, riporta la corazza a maglia intrecciata a difendere il busto e forse ogni sentimento.
Spigolose, rigide, austere, severe, le opere conquistano lo spazio offrendo il sospetto di essere meno inflessibili di quanto l’immobilità le obblighi. Costruite e saldate con un materiale freddo parrebbero incapace a piegarsi alle sventure ma di rispondere solo con la punta di una lancia. Ad osservazione ravvicinata vi si scorge il volutamente mal celato segreto. All’interno di ogni profilato utilizzato vi corrono lunghi e oscuri spazi vuoti come fossero anime o memorie di battaglie precedenti, di infinite sconfitte e rinascite.
Carlo D’Oria novello oplita, sagoma e allestisce l’evidenza dei conflitti, bellici o intimi e personali, le sue figure che definisce “Uomini a(r)mati” dialogano tra loro, con il pubblico che gli gira intorno e tocca il gelo di una lega fatta di ferro e carbonio.
A queste sculture, che in falso piano contengono qualcosa di donchisciottesco picassiano, fanno specchio disegni di figure umane in germoglio e solitaria, giganteggia in una sala dedicata una scultura titanica resa immota in un atto incompiuto, fissato tra la caduta o lo sforzo di rialzarsi.
D’Oria non intende scagliarci contro la maledizione che la Regina Anna pronuncia nei confronti di Riccardo III, Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”.
Il suo intento è invece costruito per opporre i suoi Armati a difesa di ogni sciagura, dannazione, castigo o flagello; una poesia d’acciaio contro il male ed è per questo che Domani, nelle nostre battaglie quotidiane, penseremo alle sue opere come numi tutelari,compassionevoli e forti, idealmente schierati a salvaguardia, saldi, in aiuto.
Sarebbe auspicabile divenissero patrimonio pubblico e potessero svettare in un giardino pubblico della città, ve ne è uno che sarebbe particolarmente adatto; il parco esterno al museo di antichità. Nulla è più antico di un conflitto.