Voci sussurrate rompono il silenzio. Una luce fioca illumina l’ampia stanza avvolta nell’ombra del tardo pomeriggio invernale. Il tepore del maglione riscalda il mio corpo. La mia mano scorre sulle ruvide copertine in cuoio. La polvere assopita sui ripiani pizzica i miei occhi. Afferro un libro e mi siedo, nascosta dagli alti scaffali ricolmi di romanzi, nella sezione “classici”. Lo scricchiolio delle numerose pagine cucite insieme mi da piacere. Il libro è impregnato del profumo d’inchiostro e del tempo trascorso. Vedo annotazioni e sottolineature tra le parole stampate. Mi infastidisce.
Mi chiedo perché sono in biblioteca: non prendo mai libri in prestito. Ma il mio sguardo rimane fisso sul libro aperto e i miei occhi non leggono. Accarezzo con la punta delle dita la pagina sottile, fragile, consunta. Mi taglio. La spaccatura della pelle si riempie di sangue. Brucia. Prima la osservo, poi avvicino le labbra al dito ferito e lo bagno. Il dolore diminuisce, ma il sapore del sangue non riempie la mia bocca. Sono confusa, tuttavia torno a guardare il libro. Non penso. Non leggo. Non vivo. Mi domando cosa sto facendo. So solo che sono in biblioteca, ma ignoro ciò che sto cercando.
Mi chiedo il perché. Non ricordo. Resto tranquilla e mi guardo intorno atona. Ci sono file e file di scaffali pullulanti di libri. Delle scrivanie al centro sono occupate da indifferenti lettori. Fuori dalle finestre c’è solo nero. Nessuna ombra è presente accanto alla mia figura. Strano.
Cambio libro. Non mi piace, sebbene non lo abbia neppure letto. Mi risiedo. Ho paura. Non conosco la ragione. Mi sento osservata, ma intorno a me non c’è nulla. Occhi. Nella mia mente vedo occhi fissi su di me. Eppure ci sono soltanto libri. Torno a guardare la pagina aperta. La paura non svanisce. Sollevo lo sguardo per riaccertarmi che non ci sia alcun pericolo, ma qualcosa è cambiato: in fondo al corridoio due persone, sedute alle scrivanie, analizzano i miei lineamenti e poi sorridono. Io ricambio. Sono i miei genitori. Mi alzo. Loro mi fanno segno di raggiungerli. Inizio a camminare. Sono vicini, eppure il corridoio diventa sempre più lungo. Cammino più veloce, ma resto immobile. La paura cresce. Non riesco a trovare un perché alla mia paralisi.
Altri passi risuonano. Mi giro. Un’ombra si avvicina a me. È sfuocata e indefinita. Prosegue lenta. Io rimango incantata dal sinuoso movimento della sua veste nera. Essa diventa più distinta. Si rivela un uomo. Ha i capelli corvini, un corpo sottile, ma forte, una pelle cerea. Le sue labbra vive si increspano in un sorriso severo, determinato, soddisfatto. I suoi occhi freddi e scuri mi scrutano. Li osservo, ma non scorgo espressioni, desideri, emozioni in essi. Sono solo due occhi.
La paura mi fa tremare. Voglio scappare. Lui cammina verso di me. So che vuole raggiungermi, prendermi, afferrarmi. I miei genitori continuano a sorridere e a chiamarmi. Io corro, ma le loro figure diventano sempre più piccole. Grido aiuto, ma loro non ascoltano le mie sorde parole. Lui è a pochi passi da me. Allunga la mano sottile. Io mi fermo pietrificata. Sfiora i miei capelli. Tocca le mie gote. Accarezza la mia bocca. Un brivido scuote la mia schiena. Con i miei occhi lo prego di lasciarmi. Ma lui mi porta più vicino a sé. Avvolge le sue braccia intorno alla mia vita. Le sue mani stringono le mie curve. Provo disgusto. Lo allontano, lo spingo via, gli tiro uno schiaffo. Lui ride. Mi riafferra. Mi tocca. Le sue mani scorrono verso il basso. Avvicina il suo volto al mio. Prova a baciarmi. Scappo. Tento ancora di andare dalla mia famiglia, ormai sfuocata. Loro aprono le braccia, pronti ad accogliermi, ad abbracciarmi, a salvarmi. Allungo la mia mano. Corro più veloce che posso. Non respiro più. Lui è dietro di me, pronto a riavermi. I miei genitori non sono che ombre pallide: stanno per svanire. Imploro di aspettarmi. Mancano pochi passi e sono da loro, ma si dissolvono. Mi arresto incredula. Sento il rumore forte, scattante, serrato dei miei battiti. Il terrore si è impadronito di me. Non vedo vie di fuga e mi arrendo.
Lui mi stringe. Sento il suo respiro sul mio collo. La sua lingua si insinua nel mio orecchio. Le sue dita mi obbligano a voltarmi. Il mio viso è a pochi centimetri dal suo. Si avvicina. Apro la bocca e chiudo gli occhi.
Scorgo un soffitto bianco nell’oscurità. Mi guardo intorno. Vedo una finestra chiusa, una scrivania, un armadio. Sono nella mia camera, seduta sul mio letto e avvolta fra coperte soffici. Sono sveglia e capisco che era tutto un sogno. Faccio respiri profondi. Mi tranquillizzo. Osservo alcuni dettagli della stanza per scacciare dalla mente il ricordo di quel volto. Provo a pensare ad altro. Funziona: mi sento meglio. Mi sdraio, mi rigiro nel letto e attendo che il sonno mi rapisca nuovamente. Poi dei rumori ben distinti mi bloccano il respiro: c’è qualcuno sdraiato accanto a me. Una mano accarezza il mio braccio, delle labbra baciano il mio collo e piango.
Sara Balestrieri
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