In tempo di campionato Europeo di calcio, il pensiero si rifugia nella squadra del 2016, messa in piedi e inventata da Antonio Conte. Di poca tecnica, appena sufficiente per lo scopo, di grande determinazione e attaccamento, ha rappresentato un percorso innanzitutto di presa di coscienza.
L’Italia era una nazionale diversa dal passato. Meno fastosa ma più tenace, che gettava gamba e polmoni contro squadroni e squadrette, senza più la pretesa d’esser blasonata o riverita. Sfiorò alcune soddisfazioni e si fece seme per una salutare doccia di realtà che ha fruttato tanto in seguito, nonostante, ancora, pesanti delusioni.
Se Antonio Conte fosse stato il “commissario tecnico” di Exposed che cosa sarebbe avvenuto? È un giochino ma dall’aspetto umano assai accostabile perché è proprio di apparenza e realtà che i torinesi trattano a proposito del festival internazionale della fotografia. I dati sono onanismo o sentenza ma celano abilmente il trasporto umano verso una sensazione o un’altra che, nel caso in questione, è di una diffusissima (a Torino ormai tutto si porta al superlativo assoluto ed io mi adeguo) consapevolezza di distacco.
Perché il neo evento fotografico è stato, sul sempre incompreso territorio urbano, un corpo estraneo sancito da una manifestazione che si è da subito presentata come aliena. La questione del primo anno è perlopiù una consuetudine giustificativa ampiamente utilizzata ma che sappiamo essere menzognera, in quanto viene tirata in ballo solamente nei casi di comprovata difficoltà. La storia torinese supportava un tentativo (qualcuno ha anche trattato di revanscismo) fotografico contemporaneo ma forse ci ha fregati. Ci ha dato a bere che la città e le sue strutture e la sua organizzazione ed il suo sistema fossero ancora scintillanti e gli uomini, chiamati ad adoperarsi, si erano di buon umore messi a darne credito. Ed invece è apparsa una situazione molto differente.
Forse Antonio Conte l’avrebbe resa a parole, nelle sue parole, in modo urtante però concreto: che l’apparenza è ormai solo nostra ma che Torino avrebbe bisogno di ristrutturarsi muovendo dalle realtà presenti all’interno della città, che sono in taluni casi anche di minuscole dimensioni ma funzionali e promettenti.
Che possediamo eccellenze ma che debbono essere messe a frutto e collegate nel reticolo cittadino per merito d’un lavoro lento, meticoloso, alle volte piccoso e pedante. Insomma, che oltre a raccontare una vicenda che non è più il dato di fatto, ci si armi di una certa umiltà e si cominci a ciaccolare per impostare una nuova prospettiva per la politica culturale cittadina ed anche, s’intende, per Exposed che ha dal principio posseduto i gradi del grande evento ma che ha stentacchiato da subito perché portatrice di una visione e di una volontà impalpabile nelle piazze e nelle vie torinesi. Il malessere degli operatori del settore si è mutato nell’indifferenza anche rancorosa di chi è stato accantonato o snobbato e chi avrebbe potuto incidere qualitativamente, ha preferito sedersi ed attendere che, sperabilmente, l’evento franasse.
Sarebbe opportuno che il racconto della prossima edizione partisse innanzitutto dalla contemporaneità ma non di stampo artistico ma sociale, economico e civile e si pensasse a ciò che concretamente può essere il futuro della manifestazione, discorrendo sulla brutale quotidianità dell’arte torinese. Adeguata, volenterosa, spesso dotata d’intuito ma in affanno per via di racconti ormai passati di glorie e possibilità.
Conte non avrebbe forse usato questo mio giro di parole per giungere al sodo. La sua nazionale era schietta, grossolana alle volte, ma efficace. Torino è anche geneticamente operaia, nonostante che il sapore delle macchine si stia perdendo. Anche l’arte, alle origini, è operaia. Quello “sgobbo” è necessario come lo dovrebbe essere per gli eventi attuali. I lustrini possiamo anche dimenticarli per qualche tempo, nel mentre che costruiamo possibilità diverse. Un consiglio ai “ct” Menno Liauw e Salvatore Vitale, da un tifoso appassionato.
Alessio Moitre