“La velocità di fuga è la velocità richiesta a un corpo, per esempio un’astronave, per vincere la forza d’attrazione di un altro corpo, per esempio la Terra. Giorno dopo giorno, sembra essere più vicino il momento in cui la cultura informatica, la cosiddetta cybercultura, sia sul punto di raggiungere questa velocità di fuga”.
Così scriveva nel 1996 in Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio Mark Dery critico letterario ed autore americano. Diversi autori e commentatori stanno riflettendo sul dopo pandemia, in parte reagendo agli scenari delineati da Gordon Lichfield nel suo pezzo sul MIT Technology Review, significativamente intitolato “Non torneremo alla normalità”.
COVID 19 ci ha fatto raggiungere la velocità di fuga evocata da Dery. Un virus, che ha il nome di una astronave della flotta stellare o di un asteroide di Giove, ci ha violentemente portato in uno spazio che per molti anni abbiamo descritto in molti modi, più o meno distopici, più o meno apocalittici, in cui però ora stiamo per essere o siamo già. È uno spazio che mischia noto ed ignoto, uno spazio fatto di tecnologia, distanza, esperimenti che diventano prassi, prassi inveterate che diventano improvvisamente pratiche vetuste.
Le questioni in gioco sono infinite: giuridiche, sociali, politiche, etiche e religiose. Al centro di ognuna c’è un denominatore comune: noi, gli esseri umani. Tra tutto non sarà mai come prima e tutto tornerà come prima è necessario già ora cominciare a fare in modo che tutto, o perlomeno una parte, sia come desideriamo che possa essere. Non è la prima pandemia della storia e non è la prima volta che una epidemia ha stravolto i rapporti umani: nel corso della storia che fosse peste o colera, l’altro ci è già sembrato un potenziale nemico, un untore.
Sconosciuto o parente l’abbiamo visto con sospetto ed il darsi la mano un gesto eversivo. Nonostante quei terribili giorni, in cui la popolazione mondiale è stata drammaticamente falcidiata, siamo più o meno lentamente tornati ad una relazionalità che sino a qualche mese fa avremmo chiamato ordinaria. Semplificando molto, siamo andati oltre le precedenti epidemie a motivo della nostra struttura sostanzialmente relazionale.
In altri termini abbiamo messo da parte la paura dell’altro perché dell’altro abbiamo fisicamente bisogno per non impazzire di solitudine, per perpetuare la vita, per essere vivi giorno per giorno. La grande novità storica, raggiunta la velocità di fuga, è che nell’immediato domani, rispetto all’altro ieri, avremo il digitale, la sua cultura ed i suoi strumenti. In questo tempo di pandemia abbiamo ampiamente supplito alla corporeità con la sua rappresentazione digitale. L’immateriale racconto di noi ha interfacciato in maniera impeccabile con gli altri, permettendoci un livello di socialità non indifferente, salvifico.
I contatti fisici indifferibili li abbiamo schermati con mascherine e tute, tutti gli altri li abbiamo schermati con dei devices. Quando il distanziamento sociale non sarà più necessario, ma la paura dell’altro ci rimarrà dentro, quale atteggiamento avremo? La tecnologia ha per sua natura un carattere fortemente pervasivo e facilitandoci la vita genera processi difficilmente reversibili.
Se oltre alla facilità del mezzo aggiungiamo la componente della paura, come vivremo le iterazioni interpersonali nel nuovo spazio in cui COVID 19 ci ha portato? Al posto di fare esercizi di futurologia, preferisco provare a fare esercizio di profezia. La differenza sta nel fatto che la futurologia immagina gli scenari futuri scegliendo di non stare nelle regole grazie alla potenza della narrazione; la profezia invece è coltivazione della speranza, cioè di un base solida che ci sta alle spalle, per guardare il presente tanto in profondità da poter con esso generare un futuro desiderabile.
Anziché attendere il futuro che verrà, abbandonandomi ad un fatalismo tecnologico, cioè lasciando che sia la tecnologia a disegnarlo, vorrei poter mettere parola, anzi gettare oggi un seme per terraformare questo nuovo spazio che andremo ad abitare. Penso sia importante farlo adesso, farlo subito, per poterci rendere conto che è cosa possibile nelle ristrettezze in cui siamo, e quindi ancora più promettente nel momento in cui avremo riacquisito la libertà fondamentale di abbracciare uno sconosciuto per strada quando l’Italia vincerà nuovamente il campionato del mondo. Come farlo? Non posso che tratteggiare delle suggestioni, ma comincerei con il mettere sin da subito in campo tutto ciò che non è computazionale, digitale, dinsintermediato, ma piuttosto corporeo ed autenticamente umano.
Abbiamo bisogno da subito di un surplus di atti autenticamente umani ed abbiamo un serbatoio efficace ove reperirli: il Vangelo. Il Vangelo è pieno di atti umani, autenticamente umani, sono gli atti divini, autenticamente divini di Gesù. Non è un gioco di parole: per un credente Cristo è vero Dio e vero uomo, dunque ogni suo gesto, parola, invito è partecipato tanto dalla natura umana quanto da quella divina. Gli atti umani di Cristo sono quanto di meglio Dio ci offre e per un non credente o diversamente credente, quanto di meglio l’esperienza umana ci offre.
In questi giorni anche io come tutti sono chiuso in casa, apro la chiesa la mattina, la chiudo la sera. Il resto del tempo sono in canonica a lavorare in digitale. Chi mi ha restituito alla mia carne e sangue sono stati i poveri: quelli che hanno suonato al citofono chiedendo del cibo, qualche vestito, una benedizione ed una parola. Quel campanello che suona mi scuote ogni volta perché non è solo l’umano che bussa alla mia porta, è la paura che bussa al mio ego.
Quell’umano scelgo di incontrarlo perché è più importante che io apra di qualsiasi paura io possa avere. Tengo la distanza che è necessaria, per me e per quella persona, ma apro la porta e cerco di andare incontro al bisogno che mi si palesa di fronte, con il suo volto, suoi occhi, le sue paure che sono così simili alle mie in questo tempo.
Gesù ha detto che i poveri li avremmo avuti sempre tra noi: i poveri ci salveranno dalle nostre prigioni digitali in cui, passato tutto, continueremo a chiuderci, entusiasti che tutto si possa disintermediare tenendoci al riparo dalle nostre paure. I poveri ci ricorderanno tutta la materialità di cui siamo felicemente fatti, i poveri ci aiuteranno a fare atti umani che ci umanizzeranno e ci aiuteranno a restare umani in un mondo dove le macchine saranno a servizio di questo unico vero, straordinario fine: l’essere umano, gli esseri umani, abitanti di un unico fragile pianeta.
I poveri ed i piccoli, i bambini, coloro che hanno sempre il cuore ed il desiderio di vita più sviluppato di prudenza e scetticismo. Dalla bocca dei lattanti verrà la saggezza, dalle piaghe dei poveri avremo speranza.
don Luca Peyron
Servizio per l’Apostolato Digitale Arcidiocesi di Torino