Il Maestro e Michele.
Entrare nello studio di un artista è sempre un privilegio: è la fucina di Vulcano, l’antro del demiurgo, il luogo in cui l’artista crea, vive e passa la maggior parte del tempo: qui le sue opere convivono, complici, in una sorta di regno incantato, dialogano, vengono persino distrutte, modificate, spesso restaurate. Se lo studio è quello di Luigi Mainolfi, tra i più significativi esponenti dell’arte contemporanea italiana e internazionale, nato a Rotondi Valle Caudina (Avellino) nel 1948 e torinese da sempre (per nostra fortuna), la questione si fa davvero interessante.
In questo grande spazio inondato di luce, disseminato di sculture di grandi dimensioni, materia che ribolle sotto le superfici di terracotta, gesso, pietra, colpisce un elemento su tutti: l’ordine. Un ordine meticoloso, dove gli attrezzi sono disposti su griglie verticali e ricordano una sala operatoria più che un’officina, dove anche gli scaffali hanno un senso estetico che sfugge i limiti della casualità (la vita imita l’arte anche nell’aspetto meramente strumentale). Una sorta di Wunderkammer di oggetti tra i più disparati, che convivono con grazia.
Nello studio si Mainolfi non sono solo transitate opere celebri, artisti famosissimi, collezionisti e galleristi tra i più noti: sono passate generazioni di allievi, molti dei quali oggi famosi, che qui si sono fatti le ossa, sotto lo sguardo severo e bonario di Mainolfi, che, con affettuoso rigore, realismo e molta generosità, ha insegnato qualcosa che vale di più dei segreti del mestiere: ha insegnato uno stile di vita. L’artista non è più (e forse non lo è mai veramente stato, e certamente non nello studio di Mainolfi!) lo sfaccendato creativo dai molti vizi che popola i luoghi comuni: è uno che prima si trova un lavoro e poi pensa alla sua arte, che si confronta con la realtà e poi vive di creatività, che può permettersi di sbagliare e ricominciare, a patto che abbia chiare le regole del gioco. Un gioco che nessuno ti spiega (gallerie/mostre/ mercato/gestione di sé) e che quando apprendi è sempre troppo tardi. Solo chi è passato per gli stessi percorsi può metterti sull’avviso per non commettere-troppi-passi falsi: di più non chiedere. Ma è già moltissimo.
È qui che incontro, al lavoro su una terracotta da stuccare nelle fughe, Michele Rava, nato a Torino nel 1991, scultore, famiglia di grandi restauratori, da tre anni nello studio di Mainolfi. Alla conversazione che iniziamo si unisce presto la voce di Mainolfi stesso, ed è uno spettacolo: un bel rapporto Maestro-allievo, come ben restituiscono le foto scattate ai due.
Come hai conosciuto Mainolfi?
Qualche anno fa mio papà mi ha detto di andare da lui che aveva bisogno di un assistente, ma il nostro primo incontro si è risolto in un nulla di fatto, non ci siamo capiti, io gli ho confessato di non saper far niente e lui mi ha risposto “quando hai finito l’accademia vediamo”. Tempo dopo il mio amico Nicolò mi ha proposto di venire ad aiutare in studio: ora sono tre anni che sono qui. E’ un’esperienza parallela all’Accademia e diversissima: lì, se ti applichi, impari la tecnica, qui impari la serietà nel fare le cose. L’ordine che ci deve essere in studio, l’attenzione e la concentrazione che devi porgere costantemente al lavoro in accademia nessuno te li insegna.
Parlaci del tuo essere scultore. Come nascono le tue opere?
Il mio approccio è molto mentale: lavoro su cose che mi vengono in mente e che analizzo fino a quando non individuo con chiarezza quale sia la più importante che voglio realizzare, talvolta non realizzo nemmeno il lavoro preparatorio, tanto l’idea è precisa… tra i miei progetti più recenti c’è una scultura sulla riproduzione di me stesso in dimensione reale, un’altra su un cavallo smaterializzato in metamorfosi con un corpo umano e una riproduzione in ceramica nera di un frutto della trapa natans, pianta galleggiante acquatica nota come “ la castagna d’acqua” che ho visto qui in studio e che curiosamente aveva in sé, nelle forme dell’oggetto naturale, elementi su cui riflettevo da tempo. L’opera, dal titolo “Relazioni” (recentemente esposta con l’istallazione “Sassi” alla mostra alla Cavallerizza Reale) è composta da 6 elementi di 40 x 40 cm ca. ; l’idea mi è nata dai 6 gradi di separazione, che oggi è anche il titolo di un programma di Radio Tre… L’ispirazione nasce da tutto quello che mi circonda.
E’ inevitabile essere influenzati dal maestro?
E’ inevitabile assorbire qualcosa, persino tra colleghi in accademia: ma il confronto è molto utile, anche tra noi artisti ci aiutiamo molto… ad esempio il professor Massari dell’Accademia ci ha spinto a confrontarci dopo due mesi di disegno e progetti: dovevamo presentarle i lavori gli uni agli altri e questo ci è servito molto.
A questo punto Luigi Mainolfi si avvicina per controllare il lavoro di Michele. “Lui è un’artista” dice indicando il ragazzo “non è mica è uno stuccatore”… Ho avuto molti giovani artisti nel mio studio, c’è gente che è stata con me 16 anni, lui è qui relativamente da poco. La differenza tra questi ragazzi e quelli del passato è che erano più “violenti” e più geniali, loro sono più educati e meno geniali. Michele è una persona squisita, ma i ragazzi di oggi sono ancora “bambini”: lui è il meno bambino tra i miei allievi, sa già quello che vuole…
Maestro Mainolfi, cosa augura ai giovani artisti, di riuscire a vivere del proprio lavoro?
No, assolutamente: Zorio, Gastini, Griffa, per vivere facevano un altro lavoro… Gastini vendeva marmi nei cimiteri per mantenere la famiglia, nei ritagli di tempo si dedicava alla sua ricerca, poi è diventato insegnante e ha potuto dedicare maggior tempo all’arte. Griffa ha fatto l’avvocato fino a pochi anni fa, da quando è in pensione dedica tutto il suo tempo alla sue opere. Questi sono i nomi che contano per me a Torino…come Gilardi che ha sempre aiutato gli altri. L’unico che aveva un po’ di soldi ma che viveva modestamente era Mario Merz, gli altri si son dovuti dare da fare per non contaminare il proprio lavoro. Se uno vuole vivere facendo solo l’artista è meglio che lasci perdere…Forse si incomincia a mantenersi ad una certa età, sempre se sei bravo e fortunato. Prima bisogna trovare un lavoro che ti permetta di non essere schiavo di nessuno. Oggi gli artisti sono quasi tutte puttane che si vendono al primo arrivato e si augurano di diventare dei Cattelan, ma così saranno sempre secondi a qualcuno…Quello che insegno a lui è di puntare a non essere secondo a nessuno, deve essere primo nel suo campo. Anche se facesse cose orribili lui ci deve credere.
E i suoi allievi?
Tutti i ragazzi che sono passati di qua (anche 11 allievi per volta), Mimmo Borrelli, Paolo Grassino, Maura Banfo, Saverio Todaro, è tutta gente che è stata abituata a lavorare duro, a fare il doppio lavoro se necessario: per fare l’artista devi essere libero di farlo. Michele è già fortunato perché è nato in un’importante famiglia di restauratori…lui desidera avere una libertà maggiore, è già privilegiato grazie a una famiglia che vive a contatto con l’arte. Ma deve stare attento a non contaminare il suo progetto di fare l’artista con compromessi di nessun genere.
Michele è pronto per una mostra personale? Qual è l’errore che si può correre ad una prima mostra?
Michele può iniziare da subito, ha già fatto qualche partecipazione pubblica…Adesso può permettersi anche di sperimentare, persino sbagliare, può fare quello che vuole. Michele ha cinque, sette anni per capire cosa fare: quando avrà finito i suoi studi e le sperimentazioni avrà un bel curriculum e dovrà capire dove andare e come trovare dei partner giusti, come ad esempio una galleria adatta al suo lavoro, perché non tutte sono adatte. In questo momento a suo favore ha l’età, può fare quello che vuole e poi fra qualche anno non potrà più farlo perché dovrà gestire il suo lavoro, ma adesso le sue idee sono fresche.
Lei ha avuto un maestro?
No, io non l’ho avuto ma sono stato molto precoce, a sei anni disegnavo tutto il giorno… In studio anni fa c’era un ragazzo che tendeva a fare le cose un po’ come le mie e non andava bene: diventi un “secondario”. Il mondo, la città, il paese, la via, lo studio non hanno bisogno di “secondari”; il mondo ha bisogno di menti autonome: questo lo auguro a tutti anche a quelli che sono all’accademia, istituzione che io non approvo, un parcheggio che illude i giovani artisti. Io le chiuderei tutte, piuttosto farei una scuola di questi tipo: prenderei gli adolescenti e li metterei su una nave da far viaggiare lontano dalle famiglie, li manderei a conoscere il mondo e a capire la vita.
Cos’è l’arte per lei?
L’arte è un modo di vivere, con una grande dose di volontà: non è solo saper fare, quello lo puoi imparare, con il lavoro puoi migliorarti: è avere delle idee. E’ dire “io sono diverso dagli altri”: la società cresce se si è diversi gli uni dagli altri; è l’esperienza che migliora se stessi. Michele ha due fortune: dei genitori eccezionali e voler essere diverso dagli altri, in primis dalla sua famiglia. Ha scelto di seguire una strada difficile, ma sua.
A cosa sta lavorando in questo momento?
In questo periodo mi sono dedicato ad un progetto che si intitola Il colore della scultura, la forma della pittura, una grande mostra personale, a cura di Lea Mattarella, per gli spazi della Galleria Paola Verrengia di Salerno, per la quale ho realizzato circa 30 opere: una quadreria multicolore di terrecotte e una grande installazione composta da 16 tele. A Montelupo Fiorentino è stata esposta di recente una bella installazione di due mie opere che ho realizzato a trent’anni di distanza l’una dall’altra e che dialogano ancora benissimo, (anch’io mi sono sorpreso di questo). La mostra, La ceramica dell’arte contemporanea, è un omaggio a Leoncillo, con opere di Giuseppe Spagnulo, mancato poco tempo fa, Giacinto Cerone e Giuseppe Ducrot. Alcune mie opere sono in mostra fino a settembre al Museo Tattile di Ancora per la mostra “Visioni Animali”.
Lasciamo lo studio dell’artista dopo che ci ha illustrato con entusiasmo le ultime opere a cui sta lavorando, riuscendo a trasferirci in pieno l’entusiasmo e la forza di un personalità davvero carismatica e prolifica. Salutando entrambi viene in mente un vecchio adagio che riassume perfettamente la lezione impartita dal Maestro all’Allievo: Sii realista. Chiedi l’impossibile.