Sei domande quasi facili per coloro che concorrono alla carica di Sindaco per la città di Torino e dovranno conquistare il monopolio del suo cuore per venire eletti.
Ascoltiamo Angelo D’Orsi
“Le monopole du coeur”, è stata una celebre espressione utilizzata da Valéry Giscard d’Estaing, in un famoso dibattito televisivo con François Mitterrand.
Avendo deciso di candidarsi alla guida della città come immagina di poter rispondere alle aspettative che sono indubbiamente altissime?
Praticando due parole d’ordine fondamentali che ho lanciato dal primo momento: “ascolto” e “trasparenza”. Voglio percorrere le strade e le piazze della città, andare in tutti i luoghi rappresentativi della multi versa realtà cittadina, e interrogare la popolazione: ascoltare i loro bisogni, intercettare quelli inespressi o che rimangono sotto traccia. E procedere poi, una volta raccolta una buona messe, a implementare il mio programma che per ora è soltanto un pur robusto canovaccio. E intendo rendere corresponsabile la cittadinanza delle scelte che assumerò, perciò l’importanza della trasparenza. Ogni atto tanto del Candidato Sindaco, prima, quanto del Sindaco in carica, dopo, deve essere limpido, trasparente, il che servirà anche a dare fiducia alla cittadinanza, a far sentire che l’autorità non esercita un potere su di essa, ma da essa trae forza e autorevolezza.
Quali sono le cause e chi sono i colpevoli del declino che viviamo. Ma non solo, quanta parte di ognuno di noi è coinvolta in questa situazione?
Le cause sono generali: il processo di deindustrializzazione, la fuga della Fiat, i flussi migratori che in parte hanno cambiato la fisionomia della città, con ovvie criticità, ma con importanti ricadute positive, tanto sul piano economico-sociale, quanto sul piano culturale, le incapacità e le inadempienze della classe politica nazionale e degli amministratori locali, il ritardo nel disegnare un nuovo modello di città, dopo la fine della lunga stagione della one company town, l’inseguimento dei miti delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi, miti costosi quanto discutibili sul piano dell’efficienza della macchina cittadina, fonti di debiti che gravano e graveranno a lungo sulla città e la sua popolazione. Si pensi all’avventura di “Torino Internazionale”, di qualche anno fa: grande dispendi di risorse, grande battage pubblicitario, di cui nulla è rimasto, se non i debiti con le banche.
In particolare Torino sconta il ritardo gravissimo nell’ammodernamento del suo sistema di trasporti (e anche in questo ambito si nota continuità e complicità tra le varie amministrazioni) con la realizzazione di una rete metropolitana, e d’altro lato, la non volontà di affrontare in modo serio e rigoroso il tema ambientale, in particolare della qualità dell’aria, su cui Torino ha maturato negli anni un triste primato italiano e continentale.
A quale modello di città è ispirato il suo impegno e cosa sta facendo per trasmetterlo nel modo più chiaro possibile?
Sogno una città che sia aperta, inclusiva, solidale. Una città che salvaguardi l’aria, i fiumi, gli alberi, le colline, che metta fine alla politica di dissennato consumo di suolo pubblico, che si rinnovi non negligendo il proprio passato, non soltanto quello più remoto, legato alle lotte dei ceti lavoratori e studenteschi (1917, 1919-20, 1943, 1960-62, 1968-69…), ma anche quello più recente, legato all’esperienza della “città rossa” di Diego Novelli che dura un decennio, tra i Settanta e gli Ottanta, quando Torino fu capofila di una riscossa della sinistra, dando esempio virtuoso di buona amministrazione, facendo sentire che non soltanto le cupole finanziarie e le élites ma anche i ceti popolari potevano sentirsi “padroni” della città. L’iniziativa dei “Punti Verdi”, spazi all’aperto in cui tutti potevano scoprire e godere della cultura, fu un esempio mirabile: migliaia di proletari, di ogni età, esercitarono un diritto tanto fondamentale quanto negletto: il diritto alla bellezza.
Sto dicendo questo in ogni mio comizio, in ogni intervento sulle Reti sociali, in ogni articolo o intervista. Sto cercando di trasmettere l’idea che uno Stato (e anche una città è uno Stato) non deve essere considerato una forma di “dominio fermo sui popoli”, come scriveva il piemontese Botero, nel secolo XVI, ma che la democrazia è governo del popolo, e il potere deve nascere dal basso.
Torino deve cambiare stile, mentalità, modo di vivere e lavorare o no?
Non capisco la domanda. Devono cambiare metodo e stile i suoi amministratori, direi. Dovrebbero davvero imparare ad ascoltare la cittadinanza e operare in trasparenza. Due pratiche virtuose quanto indispensabili, che purtroppo non vediamo messe in essere, e sulle quali personalmente mi impegno fin d’ora. Quanto al modo di lavorare, certo a misura della riduzione di una economia fondata sul lavoro di fabbrica, occorre trovare nuove prospettive. La mentalità va di concerto.
Nel caso venisse eletto oltre ad uno staffi di tecnici e amministrativi, da chi si farebbe aiutare? E nel caso ascolterebbe davvero i consigli di scrittori, artisti, visionari e irregolari di sorta.
Io non sono un politico di professione, e sono consapevole dei miei limiti. Mi avvarrò di una squadra di persone competenti, che saranno i miei assessori e coadiutori. Eviterò di usare stuoli di “consulenti”, ma voglio comunque attivare un moto generale di interesse e di attenzione alla città e alla sua gestione, convocando tutti coloro che hanno qualcosa da dire, qualche proposta, qualche suggerimento, comprese le critiche, a farsi avanti. Ma già nella mia campagna elettorale intendo dare spazio, “futuristicamente” a letterati, artisti, musicisti, performers, che siano in grado di essere un valore aggiunto, rispetto alla fondamentale strumentazione di sociologi, urbanisti, filosofi, storici, antropologi, demografi etc. Dal canto mio, credo di avere accumulato, con lo studio e l’insegnamento, una notevole base conoscitiva e critica che è il mio vero atout: in particolare la conoscenza storica costituisce una formidabile base per l’agire politico. E su questo piano non temo confronti con nessuno dei candidati.
Su Netflix c’è una serie dedicata a Marsiglia e all’elezione del futuro sindaco con Gèrard Depardieu protagonista. Cosa ne pensa di come il cinema traspone e racconta il mondo della politica.
Non conosco la serie in questione. E circa il rapporto tra cinema e politica, la domanda è talmente vasta che richiederebbe almeno un articolo se non un saggio!
Angelo d’Orsi, già Ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, ha insegnato anche in diversi atenei stranieri. Si occupa di storia delle idee e degli intellettuali, di nazionalismo e fascismo, di guerra, e di teoria politica e di metodo storico. Ha ideato e dirige le riviste «Historia Magistra» e «Gramsciana».
Da anni Antonio Gramsci è il suo autore di riferimento, e oltre a libri e articoli gli ha dedicato anche uno spettacolo teatrale Un Gramsci mai visto proposto finora in una quarantina di rappresentazioni. I suoi più recenti titoli sono 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, 2016); Gramsci. Una nuova biografia (Feltrinelli, 2017; ed. riv. e accr., 2018); L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, 2019); Manuale di storiografia (Pearson Italia, 2021)