“Torino fonde l’ambiguità e l’allusione come poche altre città; le sue piazze proiettano ombre
geometriche che, mentre si lasciano percorrere con la mente, ti rubano i sensi lasciandoti
smarrita. Poi, dipana davanti ai tuoi occhi corsi e viali che paiono infiniti, di largo respiro e
ampi spazi. Tutto sembra riferirsi a un’eleganza e a un’armonia bene architettate, tutto
dovrebbe tranquillizzarti, rassicurarti, eppure, Torino solleva nell’osservatore un sottile stato
d’inquietudine, come se ci si stesse muovendo nel labirinto voluto da una mente ignota.
Anche i suoi parchi e i suoi giardini sono sapientemente distribuiti come profili
d’impercettibili trincee, quasi una demarcazione fra un dentro e un fuori, come a scandire fra
un prima e un poi. Sono spazi che attutiscono suoni, urla e promesse. Sono luoghi di foglie
che aspettano di cadere e di germogli trepidanti. Lo stesso mormorio del sottobosco delle
colline si ritrova a Torino nelle sue botteghe e nei negozi storici, così come nelle librerie
antiquarie e negli incantevoli caffè. Ovunque c’è un riferimento al passato che non ha mai
smesso di cesellare il presente, ma Torino è anche laboratorio e fucina, con idee e
intraprendenze che varcano i suoi stessi confini. A Torino non preme di essere moderna e
all’avanguardia: lo è senza doverlo dichiarare. Torino è misteriosa e in ciò risiede il suo
segreto: lasciarsi conoscere senza farsi spiegare.”
Mariana Fujerof mi parla di Torino e di come la vede; è una scrittrice che si nasconde tra le righe del suo romanzo, una donna di cui si sa molto poco e la cui sensibilità si percepisce leggendo le sue parole. Traspare nelle sue descrizioni, nelle atmosfere che crea e nel periodo che ha scelto per raccontare la storia dei suoi personaggi. Una Torino di inizio secolo scorso, uguale a quella in cui viviamo sotto molti aspetti eppure piena di un fascino che spesso non le riconosciamo più.
“Il veleno nell’anima” (Butterfly edizioni) appare come la storia di un amore proibito, a leggerne la trama superficialmente si potrebbe scambiare per un classico romanzo rosa a tinte un po’ forti – come va di moda oggi- e invece cela al suo interno un segreto.
“Torino, primi del ‘900. Un collegio femminile per ragazze di buona famiglia. La signorina Trachta, ormai orfana, trascorre le sue giornate nell’ombra, convinta di non valere nulla, sino a quando una lettera inaspettata non riporta nella sua vita l’affascinante fratello Ludwig, che la prende e la porta via con sé. Tra i due s’instaura da subito un rapporto ambiguo e morboso che lei, già fragile per gli incubi che la tormentano, non sa come controllare. In realtà, sotto la patina luccicante della quotidianità, si nascondono segreti che premono per tornare alla luce e che affondano le loro radici nel misterioso passato della sua famiglia.
Tra candele e quadri velati, tende di damasco e melodie di carillon, Mariana Fujerof, maestra della narrazione, conduce il lettore in un labirinto di passione e follia in cui non valgono le normali regole dell’attrazione, e il passato è un veleno da bere fino all’ultima goccia per poter riconquistare il proprio presente.”
L’autrice invece narra, con estrema abilità e uno stile invidiabile, del dolore del non essere amati e dei segreti che ogni famiglia può celare. Della sofferenza causata dal rifiuto o dall’incapacità di alcuni genitori di considerare il proprio figlio come una persona e non come un mezzo di rivalsa.
“Il mio obiettivo era raccontare quella scomoda verità, rappresentare quelle dinamiche del male che ammorbano quel nucleo in cui, per natura, ci si dovrebbe sentire maggiormente protetti e dove, invece, si può venire colti indifesi, totalmente inermi.” Questo lo fa attraverso le figure dei due orfani Trachta, diversi tra loro per storia e temperamento. La giovane in collegio, che teme di non avere un futuro e di non valere nulla. Delicata e fragile. Il fratello Ludwig, che la “salva” dal collegio per rinchiuderla in un rapporto torbido e malato che nulla ha a che fare con l’amore. Né fraterno, né di altro tipo.
“Conscio della propria avvenenza e del proprio fascino, e del desiderio che può suscitare nelle donne, approfitta di questo suo vantaggio, e considera l’essere buono un modo sbiadito, insipido, di vivere … La sorella, una creatura indifesa e dall’aspetto etereo, è talmente narcotizzata dal dolore e dalla convinzione della propria nullità e inconsistenza, da non riuscire più a sentirsi viva: «È così, essere morti dentro. Esisto solo agli occhi degli altri come silenziosa e inutile presenza». La percezione di se stessa diventa evanescente, impalpabile, priva di sonorità interiore e traslata nel tempo. Sopravvive come immersa in un perenne stato di dormiveglia, imprigionata tra il non essere e il terrore di venire soppressa. Questa sua fragilità interiore e la finezza dei suoi tratti (di cui non è neppure consapevole) stimolano in Ludwig —il quale proprio in virtù del suo aspetto in lei ravvisa la madre ‘negata’— il desiderio di possederla e di fagocitarla, fino all’annientamento dell’essere.” Racconta l’autrice. “Il tormentato personaggio maschile, Ludwig, è mosso da una disperata ricerca d’amore e di conferme che si traduce in atti dichiaratamente malvagi nei confronti delle donne, da lui usate come oggetti per soddisfare i suoi impulsi, e della sua stessa sorella che viene sacrificata; è un uomo ferito nel profondo, irrimediabilmente danneggiato, che si relaziona all’altro attraverso la sofferenza inflitta o percepita. La sua ricerca della madre si è evoluta in qualcosa di contorto e perverso, si è trasformata in una vuota rivendicazione, in un atto cieco che impedisce al bene di compiersi. La sua vita è tutta strutturata sulla privazione dell’amore di quella madre che lo ha rinnegato, e non sul suo adempimento.”
Mariana Fujerof non è di Torino eppure ha scelto la nostra città per ambientare una buona parte del romanzo. Molto particolare, conduce per le vie della città e le descrive come se il tempo non esistesse. Ha come interessi la danza e la lirica, l’antiquariato, il cinema muto e la scrittura. Uno stile da scoprire, profondo come un giro di valzer che pare far scivolare i ballerini sul marmo antico e che invece lascia tutto il peso di un dialogo interiore profondo e graffiante. Da leggere.
“L’ho voluta ambientare a Torino, città che conosco piuttosto bene e di cui apprezzo il fascino e la bellezza struggente, quasi crepuscolare, la sobria eleganza e quell’inconfondibile e inimitabile signorilità mai ostentata. Non vi ritorno oramai da moltissimi anni, immagino che nel frattempo sia cambiata, ma nelle storie che scrivo rivivono come in un sogno remoto i luoghi dei miei ricordi … ad esempio l’antica villa in collina, che nel romanzo attribuisco al personaggio del nobile Costantino e della quale, per esigenze d’intreccio, ho dovuto modificare qualche dettaglio rispetto alla realtà, senza però mai allontanarmi dall’incanto che aleggia in quel luogo solitario.”
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