La teoria e la pratica musicali del XVIII secolo sono strettamente influenzate dal pensiero illuminista e dalla consapevolezza che il progresso dell’umanità sia un dovere di ogni singolo individuo: le categorizzazioni del passato, le regole e il sapere degli antichi appresi fino a quel momento come dogmi inviolabili sono analizzati scientificamente e messi in discussione, fino a essere completamente svuotati di autorevolezza e significato. Il sapere umano, e di riflesso le arti che lo rappresentano, progredisce e rivela nuovi orizzonti e frontiere da superare.
Sarebbe scorretto pensare che la teoria musicale sia rimasta immobile sugli esacordi di Guido d’Arezzo fino alla “scoperta” bachiana di metà Settecento del temperamento più o meno equabile: i teorici dei secoli intermedi hanno cercato di elaborare un metodo più moderno di codificazione dei suoni e dei modi musicali per assecondare la naturale propensione alla novità dei compositori che cercavano nuove strade per rendere le loro opere al passo con i tempi. L’errore di questi teorici, se di errore si può parlare, sta nel cercare il nuovo basandosi su regole e norme antiche, senza avere il coraggio di metterle in discussione: così alla teoria modale Gioseffo Zarlino aggiunge a metà Cinquecento i due modi che corrispondono alla successione di suoni della scala maggiore e minore, senza rimettere in discussione l’intero apparato e limitandosi ad apportare un’aggiunta alla teoria passata.
Il XVIII secolo raduna invece molti teorici che, ritenendo obsoleta la categorizzazione precedente, cercano una nuova e più adeguata teoria che possa permettere ai compositori di scrivere opere in varie tonalità, fino a variarle all’interno della stessa composizione. Tra i vari sistemi temperati di accordatura spicca quello di Johann Sebastian Bach, che dimostra nel suo Wohltemperierte Klavier la possibilità di scrivere in tutte le tonalità senza dover accordare lo strumento a ogni nuova modulazione. Giuseppe Tartini invece parte dal principio fisico del suono per scoprire, a dire il vero abbastanza casualmente, il terzo suono, ossia un suono non eseguito che si sprigiona dalla somma di due altri suoni in una relazione determinata. Le sue dissertazioni teoriche sono decisamente deboli e facilmente attaccabili, come avvenne infatti in molte occasioni, e sono frutto di una scienza che muoveva in quei decenni i primi passi, ma testimoniano l’approccio moderno agli argomenti teorici che sono il fondamento della musica scritta ed eseguita.
Ulteriore elemento che collega i due compositori è la grande padronanza tecnica degli strumenti di cui erano grandi virtuosi (il violino per Tartini e l’organo/clavicembalo per Bach), testimoniato dai concerti in programma, veri capisaldi del repertorio barocco. Il Triplo concerto in la minore BWV 1044 e il Quinto concerto Brandeburghese BWV 1050 di Johann Sebastian Bach, scritti per il medesimo organico di flauto, violino e clavicembalo solisti accompagnati da un’orchestra d’archi, riservano in particolare al clavicembalo un duplice ruolo di realizzatore del basso continuo e di solista, a cui vengono riservate cadenze di particolare difficoltà. I due tempi centrali, Adagio ma non tanto e Affettuoso, sono in entrambi i casi riservati ai solisti, in una sorta di Trio sonata interna al concerto. Seppur composti in periodi e città diverse (il Quinto Brandeburghese fu composto durante il soggiorno a Köthen tra il 1717 e il 1723, mentre il Triplo in la minore fu scritto a Lipsia tra il 1738 e il 1740 per il Collegium Musicum, di cui era direttore) questi due concerti testimoniano l’amore di Bach per lo strumento a tastiera; la stessa intensità di sentimento si può ritrovare nei concerti per violino di Giuseppe Tartini e in particolare in quello in re maggiore, dove l’esecutore è portato all’estremo del virtuosismo, specie nel registro acuto, vera cifra stilistica del compositore.
Alessandro Baudino