Tutta dedicata all’oro o ai suoi simulacri la mostra Or dublé che si inaugura nella galleria torinese di Franz Paludetto a sancire il virare verso un tenue giallo zafferano il colore della stagione.
Convitati a dar conto del nobile metallo Titti Garelli e Plinio Martelli, dublé come coppia o doppi, non falsi ma contraffattori di obbligate sembianze, ironici e complici nel catturare con una calamita prospettica dentro al loro mondo: entrati nella loro rete si individuano i punti ma non le vie di fuga. Artisti di lungo corso che sanno piegare la metallica seriosità aurea ad un ideare facendo, un giocare con la stesura della foglia d’oro per esaltare e sovvertire.
Lampeggianti effetti di luce, cromati e profondi oltre l’apparenza fanno da fondo alle regine neo gotiche di Titti Garelli che, indifferenti all’ospitalità duecentesca così imbandita, si rivolgono a chi le osserva astratte e algide esibendo simboli di possibile presente. Scure bottiglie in mano alla mascherata Borgognona o alla intangibile Albeisa, profferte di vini finissimi, adescatori e forse toccati da sortilegi oscuri.
Più diretta e ammantata di metafisica sensualità l’opera Elena Regina, lo sguardo sorregge più delle mani il peso amletico di un docile e condiscendente teschio; i capelli di un biondo vivo, alzano il colore, la sua reattività, vincendo per forza di viva pubertà il confronto con l’eternità dell’oro su cui si stagliano.
Il fondo d’oro fu il cielo metafisico delle tavole dei primi maestri italiani, principio di ogni bellezza, ponte solenne tra terra e cielo. Così come per certi aspetti l’oro è appartenuto all’alchimia, all’esoterico, alla trasformazione mirabile e onnisciente che debella la viltà del materiale per trasmutarlo in materia primigenia. L’applicazione dell’oro compiuta, con disegno rituale su modelle fotografate nei toni del grigio da Plinio Martelli, lo trasforma in festoso demiurgo che traccia draghi impossibili sui corpi prescelti.
Martelli ritatua riscaldando i segni, da freddi motivi a calde dorature che a rilievo si impongono come nell’opera – L’albero dorato, su schiene che paiono antiche metopi. Simboli tribali, accesi di luce si dispongono sui corpi sensuali di modelle di cui non scorgiamo mai il volto, fotografate in una luce temperata, vampiresca, appaiono come dee inconsapevoli e proibite.
Nell’antichità si pensava che l’utilizzo dell’oro, l’aurum, potesse curare alcuni disturbi o portare le persone alla follia, eventualità che si ripresenta nel terzo millennio con la fitta ed inquietante presenza dei compro oro, anch’essi, probabilmente soggiogati stregati dal potere magico dell’Or dublé.