“Joker” è un film clamoroso.
Quella che viene raccontata è una sociologia della catastrofe che mette tra parentesi ogni giudizio morale e fa emergere in tutta la sua carica virulenta una pura domanda politica.
Un film incommensurabile rispetto al “Cavaliere oscuro”. Il capolavoro di Nolan/Ledger è una metafisica del male: il Joker non ha un passato, o ne ha infiniti; non si sa da dove venga, e proprio per questo lo percepiamo come totalmente altro, il male puro e radicale che, come un lampo oscuro, viene a turbare e distruggere la normale quotidianità.
Il “Joker” di Phillips/Phoenix (con quest’ultimo che può essere descritto da un solo aggettivo: stratosferico) è invece una genealogia che ci mette di fronte alle origini del male nella quotidianità stessa.
Joker è un abisso del quotidiano, un altro in cui siamo in grado di rispecchiarci. Vale a dire che le cause dello spalancarsi dell’abisso non vanno ricercate in nessuna trascendenza né, tanto meno, nella follia individuale. Perché le cause sono tutte interamente materiali e sociali.
Gotham, una città che può essere la nostra, è una metropoli che sta implodendo, anzi che si sta sbriciolando. L’unica “etica” pensabile e agibile è quella dell’individualismo più feroce – “là fuori non ti puoi fidare di nessuno” -, la stessa “etica” professata dall’élite di ricchi che tiene in scacco una moltitudine la cui rabbia, secondo gli stessi potenti, è solo invidia clownesca nei confronti di coloro che ce l’hanno fatta.
Quella di Gotham è una società che, realizzando il sogno dell’élite stessa, non è più tale. I tagli al budget sociale sono la cornice di tutto il film, e poi miseria, sporcizia, alienazione, degrado.
Fleck/Joker, nella sua malattia mentale, è il prototipo dell’essere umano fragile che è stato abbandonato dalla società “Chi mi prescriverà i farmaci? Con chi parlerò adesso?”, confinato nel non senso, e questa è l’unica verità che è a lui stesso estremamente chiara, anche nel momento di follia più parossistica (a proposito: la scena nello studio televisivo con De Niro entra per la porta principale nella storia del cinema).
E’ questa insensatezza che, a un certo punto, diventa insostenibile e tracima nel delitto, nella morte. Un grido disperato che, riecheggiando nell’abisso, diventa ghigno sinistro.
La trasformazione di Fleck in Joker, per dirla con Lacan, è la forma più estrema di passage à l’acte, l’unica possibilità che rimane a chi, alienato dagli imperativi sociali dominanti, sta per essere sommerso nel deserto della società stessa.
Certo, Joker è un antieroe, è un assassino, eppure non ce la sentiamo di condannarlo del tutto. E questo per la semplice ragione che, sebbene lui sia colpevole, non esiste alcun punto di riferimento per il bene. Anzi, l’élite del potere, a partire da Thomas Wayne, il borghese Wayne, è ancora più colpevole, e lo è della colpa originaria e abissale di aver distrutto Gotham.
Non stupisce che le élite americane, ma in fondo anche quelle europee, abbiano stroncato il film di Phillips come un’opera immorale, che giustifica la violenza e che distrugge il principio della responsabilità individuale. Non stupisce affatto. Perché il Joker di Phillips è in realtà una denuncia di questa società, la nostra, di ciò che è diventata negli ultimi quarant’anni di dominio neoliberale.
E questo è vero al punto che il film, che significativamente è ambientato nel 1981, anno dell’inizio dell’era Reagan, potrebbe essere introdotto dalle parole della Thatcher: “la società non esiste, esistono solo gli individui“.
Il punto è che una certa critica non regge perché Joker annulla l’incanto ideologico su cui essa pretende di fondarsi. Quella che rimane, invece, è una domanda politica radicale: Che fare? Come uscire dall’abisso?
Ovviamente il film non ci fornisce alcuna risposta.
Il passage à l’acte è per definizione inconcludente – ed è proprio quello che Phillips vuole mostrarci. Ma la sua denuncia è la premessa indispensabile perché una risposta diventi possibile. Una risposta che non potrà essere meno che rivoluzionaria.
Sul “Joker” potrebbero essere dette ancora innumerevoli cose. Un’analisi estetica del film, ad esempio sul tema della maschera e della metanarrazione, sarebbe addirittura vertiginosa.
Il capolavoro di Phillips /Phoenix è il più grande atto d’accusa che l’arte abbia mai rivolto al neoliberalismo.
Un film clamoroso.
Stefano Marengo