Bravo, non c’è che dire.
David LaChapelle nella mostra della Venaria Reale viene presentato come meglio non si potrebbe. Il luogo e l’allestimento sono celebrativi al massimo. Le stampe fotografiche, in parte chimiche e in parte a getto d’inchiostro, sono di medie e grandi dimensioni. Il colore industriale di cui sono fatte viene usato con quel professionismo statunitense che non ha rivali nel mondo, nemmeno in Europa. C’è poco da fare, nel vero paese che ha inventato la fotografia (in Francia lo è stata per caso) chiunque possa avere qualcosa da dare in pasto ai supertecnici del settore se lo ritrova confezionato a regola d’arte e persino qualcosa in più.
La stima quindi è altissima, il professionismo esposto è ai massimi livelli. Applausi.
Però, come al circo e in tutte le cose della vita, quando passi il tuo tempo ad ammirare la bravura tecnica è perché, a parte quella, non c’è davvero nient’altro.
Ogni idea, ogni riferimento iconografico, ogni minimo dettaglio visibile è frutto di un arzigogolato rimasticamento di qualcosa che era stato fatto prima, e molto meglio, da qualcun altro, in genere un pittore, ma non solo.
Si pesca in modo disordinato da qualsiasi filone del cosiddetto “immaginario collettivo”, quello delle persone qualunque con studi che, se ci sono, sono stati un po’ disordinati. Nel Novecento, prima di Andy Warhol, si sarebbe chiamata “cultura di serie B”. Ne rimane un pasticcio che può piacere come andare a mangiare da McDonald’s. Roba da apparati digestivi devastati.
De gustibus…
Tutto bene quindi? Anche no. No, perché spacciare per roba da chef stellato della bassa cucina consumistica è un falso ideologico. Le stampe fotografiche della mostra ambiscono a presentarsi in competizione con il riferimento più diretto, la grande pittura della tradizione occidentale, cercando persino la citazione ironica nella sintesi figurativa, in specie quella di matrice evangelica, come se fosse una sorta di superamento “contemporaneo”.
Non funziona affatto. La sensazione è deprimente. Tanta qualità produttiva, tanto lavoro di professionisti capaci, tanti soldi spesi, tanta fatica di gente che lavora ai massimi livelli per avere alla fine uno spettacolo fatto di macerie culturali. Come se la mente di un sopravvissuto all’Apocalisse prossima ventura partorisse pezzi sconnessi e male assortiti di quella che fu, un tempo, una cultura tra le più importanti della storia umana, messi insieme in qualche modo con la tecnica più diretta, semplice e accessibile: quella fotografica.
Sì, forse è questo alla fine il “messaggio”. Peccato però che, per fortuna, i dipinti, i testi letterari e teatrali, le musiche, le coreografie, le scenografie, tutti gli originali insomma siano ancora in gran parte lì, sepolti nelle chiese, nei palazzi, nei musei e negli archivi, a volte persino sulla rete, a dirci come stanno le cose per davvero.
Basta volerlo sapere per davvero.
Fulvio Bortolozzo