“Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone principale dove giocavo da bambino. Siccome – ripeto – sono ambizioso, volevo girar tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire alla presenza di tutti: “Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là”.
Così Cesare Pavese raccontava Santo Stefano Belbo, il suo paese natale. Oggi forse non riconoscerebbe a prima vista il paese che conobbe e che con immensi centri concentrici per tutta la vita non smise mai di scrivere, ricordare, rievocare fino a nobilitarlo a mito. Un mito che lo ha aiutato a dare un senso al suo vivere e a sapere sempre, cosa rarissima, quale possa essere il suo posto nel mondo. Foss’anche fatto di solo quattro tetti.
In questo paese divenuto il precipitato simbolico insieme alle Langhe della poetica di uno dei più grandi scrittori italiani è possibile incontrare una mostra che di quei luoghi riporta a titolo figurativo suggestioni e segreti.
E’ una grande chiesa che, uscita da tempo dal perimetro del sacro, intitolata ai Santi Cristoforo e Giacomo, ospita l’esposizione “Suite pour l’Invisible”, inaugurazione il 15 aprile, visibile fino al 15 maggio, del fotografo Edoardo Hahn, oggi sede della Fondazione Cesare Pavese.
L’altezza vertiginosa della navata crea un vuoto austero e solenne, copre e veglia sul silenzio delle immagini affisse che riportano all’interno frammenti del mondo fuori, l’extra muros che le alte pareti costruite tra la fine del XIII l’inizio del XIV secolo, da sempre cercano, con poco successo, di impedirne l’accesso. Nello stesso luogo dove Pavese fu battezzato seguono e si inseguono, tra nicchie, pareti, colonne, esedre le fotografie disposte a costruire una narrazione a mosaico.
L’altare pagano della fotografia è da sempre il bianco e nero e in questa suite che evoca, la sinestesia dell’invisibile, esso predomina e guida il discorso in modo che risulti l’evidenza, l’ineluttabilità, la conquista di una dimensione espressiva compiuta dentro a quell’arcobaleno sintattico che sono i mille scalini dei possibili grigi. Nelle fotografie di Hahn c’è una singolarità rivelatrice che predilige soggetti di difficile oggettivazione: architetture, manufatti, cose in grado di offrire una suggestione alla luce che li va a interrogare, ne cerca le risposte, registra il concedersi e il ritrarsi.
Nell’esecuzione si impone l’originalità del pensiero, la speculazione, l’analisi formale per raggiungere un risultato. Tuttavia qualcosa trapela dietro la coerenza plastica; ad una osservazione più attenta traspira la tensione emotiva, la si percepisce lavorare in sottotraccia, per contèssere tecnica e poesia.
L’emotività espressiva è come fosse sempre ad un ridosso, alla ricerca di un’insenatura che offra riparo. A proteggere il proprio sguardo e le cose che catturano attenzione. L’invisibile che si cela nelle immagini richiama una possibile incomprensione.
Un possibile parallelo con la difficoltà di lettura ed elaborazione consapevole degli eventi, di ciò che vi è intorno, che poi genera paradossi, goffaggine, solitudine. Una prosa dell’impotenza, seppur attenuata, addolcita dal restituire luoghi, frammenti di paesaggio nella loro essenziale verità. Quando nelle foto ritroviamo i colori, questi sono leggermente saturi, come nel bianco e nero certe sgranature danno consistenza e profondità all’immagine, il senso di uno spazio geometrico, preciso, dal quale estrarre sensazioni preziose, magari impercettibilmente malinconiche.
Il segreto, l’invisibile della fotografia, di ogni arte, è imprigionato nel tentativo mai esplicitato completamente di provare a catturare quel fondo di verità insito in ogni cosa, portarlo alla luce e farlo sfolgorare.
Fondazione Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo (Cn) Piazza Luigi Ciriotti n. 1 – Lun- dom 10.oo – 12.30 – 14.00 – 18.00