È di questi giorni la notizia che nel 2017 sorgerà a Francoforte il primo museo dedicato alla musica elettronica: il MOMEM – Museum Of Modern Electronic Music, nato da un’idea dei dj Alex Azary e Andreas Tomalla (insieme a Juan Atkins, il creatore del termine techno). Il MOMEM sarà strutturato in diverse aree con l’intento di raccontare l’evoluzione della musica elettronica negli ultimi trent’anni, attraverso la storia dei dj più influenti, delle etichette fondamentali per il genere e l’organizzazione di eventi dal vivo.
A Torino il percorso è stato inverso e altrettanto rivoluzionario: per la prima volta la musica elettronica, grazie al progetto Glasstress (Musica Di Vetro), di Max Casacci, produttore, compositore e fondatore dei Subsonica & Daniele Mana, musicista e produttore elettronico di culto conosciuto con lo pseudonimo Vaghe Stelle, in arte MCDM, è entrata nel Museo d’Arte Antica di Palazzo Madama e, per spingere la sfida ancora più in là, direttamente (come vedremo, non a caso) nella Camera di Vetro, recentemente riallestita, dove sono conservati gli esemplari più preziosi in questo materiale, una collezione che conta oggi 190 esemplari dal XIII al XVIII secolo, attualmente la più ricca raccolta in Italia e una delle più importanti al mondo per valore storico e artistico.
Lo scorso ottobre due live set, realizzati grazie alla fattiva collaborazione del direttore del Museo Guido Curto e al prezioso contributo della Fondazione CRT, hanno dato vita ad un’esperienza musicale totalmente nuova per realizzazione e contesto, e questo per la gioia di un pubblico che aveva esaurito da giorni tutti gli spazi disponibili.
Glastress ha appena vinto il premio Toast 2016 per la musica sperimentale: per l’occasione abbiamo intervistato il duo per raccontarci meglio questa inedita esperienza musicale.
Max, come è nata questa collaborazione?
Per questo progetto abbiamo lavorato come MCDM dall’acronimo dei nostri nomi; l’idea nasce dalla richiesta di Adriano Berengo, imprenditore del vetro, curatore di mostre e proprietario del Museo del Vetro di Murano, di integrare la musica nel suo progetto Glasstress, mostra sull’arte contemporanea in cui sono stati chiamati molti grandi nomi del panorama dell’arte contemporanea (dal 2009 è un evento collaterale della Biennale di Venezia) e che ora sta portando in giro per il mondo. Anche la musica quindi è stata chiamata a confrontarsi con il vetro, cosa piuttosto bizzarra e visionaria che a me è piaciuta subito e per la quale ho pensato a Daniele Mana, con il quale prima di allora non avevo mai lavorato a due mani, ma che come musicista apprezzavo da tempo.
Come vi siete conosciuti?
Tra musicisti ci si osserva… Dirigendo il Festival Traffic avevo coinvolto Daniele per la sonorizzazione di un ex dinamitificio trasformato oggi in Eco Museo. Daniele era stato particolarmente intraprendente ed era arrivato a “scomporre” le tracce per ogni diverso diffusore sonoro, accompagnando così il visitatore durante il percorso e generando suggestive contaminazioni tra i diversi suoni. Ho trovato il progetto strepitoso e alla prima occasione mi ero ripromesso di coinvolgerlo in qualche mio progetto.
Come è venuta l’idea a Berengo, ti conosceva? Arte vetro e musica, e per di più elettronica: non è un accostamento banale…
Berengo è una mente vulcanica, si interessa di tutto… mi conosceva perché suo figlio ascolta i Subsonica. Ci siamo trovati a parlare di musica e lui ha formulato questa idea che io ho voluto tradurre in progetto. Il nostro marchio di fabbrica prevede che noi lavoriamo sui rumori. Non è un cosa totalmente nuova, mi sono rifatto ad altri musicisti che già lavorano su questo ma è un linguaggio che poi ognuno adatta al proprio tipo di narrazione, dando vita ad esiti musicali molto personali.
Daniele, come ti sei avvicinato alla musica?
Ho studiato pianoforte da bambino, ma mi sono approcciato alla musica più tardi in modo serio: nel 2005 a 21 anni sono stato selezionato per il Red Bull Music Academy, a Seattle, 20 giorni di workshop con grandissimi professionisti della musica, un’esperienza incredibile. I partecipanti all’Academy hanno la possibilità di confrontarsi con i migliori professionisti internazionali del mondo della musica: produttori, editor, musicisti, registi, cantanti e tecnici del suono, negli workshop e nelle prove d’esame, sostenute dagli studenti sotto la forma di serate in club e in studi di registrazione. Ogni anno selezionano una o due persone per stato, arrivano anche 2000 domande di ammissione. Da lì ho capito che la musica poteva diventare una cosa seria. Con Max invece ci siamo conosciuti nei locali qui a Torino, ci rispettavamo molto a vicenda. In seguito mi ha proposto la sonorizzazione del dinamitificio per Traffic e da lì è nato tutto.
Max, come si è svolto il progetto nel dettaglio?
Premetto che non eravamo mai stati né a Murano né in una fornace. Lì abbiamo pensato di campionare i rumori di tutto il processo produttivo partendo dalla struttura della musica elettronica. Nella fornace abbiamo subito avuto un piccolo incidente di percorso perché il maestro soffiatore non era stato avvisato della nostra presenza e vedendoci con dei microfoni ci ha subito scambiato per dei tecnici dell’Arpa per dei rilevamenti sulle condizioni di lavoro. È iniziata una mezz’ora di incomprensione con tentativi di approccio puntualmente respinti (ride, n.d.r.), poi tutto si è risolto. Abbiamo poi deciso, porgendo le orecchie all’ambiente, di dirigerci verso il forno, che è risultato subito essere il luogo più interessante dal punto di vista sonoro perché è l’anima di tutto, è l’elemento che con più costanza emette un suono di base e un soffio molto profondo, come un respiro continuo, una frequenza molto bassa, sui 60 hertz. Quelle potevano essere le fondamenta del nostro lavoro: un piccolo taglio di quel suono poteva rappresentare un impulso ritmico come quello di un basso o di una cassa. Quindi si poteva formulare l’ipotesi di poter utilizzare i rumori della fornace per tutta l’ossatura ritmica del progetto sonoro: se questo può diventare la cassa allora l’utensile può diventare la parte della batteria del rullante mentre il suono del vetro più cristallino può riferirsi alla batteria nelle parti più metalliche… Da lì abbiamo capito che dovevamo tradurre l’energia della lavorazione in energia sonora. Abbiamo registrato per un giorno e mezzo poi siamo andati con la nostra campionatura di rumori in studio e abbiamo costruito la nostra batteria di vetro; dopodiché Daniele, che ha un approccio più “nuovo” all’elettronica di ultima generazione, ha aggiunto anche alcune melodie che si autogenerano: è la macchina che genera il suono anche a livello melodico, cosa che governa il processo creativo. Questo esperimento doveva essere in grado di raggiungere anche le persone che non sono vicine all’elettronica; abbiamo dall’inizio strutturato dei temi musicali, non ci siamo lasciati affascinare solo dal processo creativo fruibile da un circuito musicale specifico: siamo andati avanti e quest’anno è uscito l’album che contiene 10 tracce e che è frutto di questo lungo percorso.
Daniele, quali sono i temi di queste tracce da un punto di vista narrativo?
Ci siamo immaginati ad esempio la fornace di notte col forno che non viene mai spento e che continua a illuminare quel luogo con le fiamme… è nato Murano Notte, un pezzo di grande atmosfera; in un altro caso ci siamo immaginati una Foresta di Cristallo. Per il brano Like a Glass Angel ci siamo ispirati all’opera “Inside Out” di Pharrell Williams, che nella mostra Glasstress 2011 esponeva una statua raffigurante lo scheletro di un angelo di vetro, un’opera di per sé molto rock, e che lui, dopo aver sentito tutto l’album, ci ha concesso di usare per la copertina del singolo.
E poi siete arrivati ad esporre a Palazzo Madama…
Si, Palazzo Madama, in particolare la Camera di Vetro (dove il grande problema era la vibrazione dei bassi!): è stato il secondo esperimento di musica live dopo il Festival di Firenze Fabbrica Europa, ma stiamo studiando una formula per portare Glasstress anche in luoghi dove la musica elettronica si balla, ci sono tracce molte ritmate a fianco di tracce più “mental”.
Max, questo progetto vi ha spinto verso nuove ricerche sui “rumori”?
Per Pulse, all’interno del Jazz Festival di Torino del 2016, abbiamo coinvolto Emanuele Cisi, grandissimo saxofonista jazz, e abbiamo analizzato i rumori della città di Torino, dallo stridere del tram alla curva dello stadio ai rumori dell’Amiat: abbiamo creato la struttura ritmica e lo abbiamo presentato in piazza a Torino davanti a 10.000 persone. Quello che nel jazz si chiama pulse è rappresentato dalla batteria, è quell’elemento che restituisce la frenesia urbana della città: noi abbiamo tolto la batteria e abbiamo inserito direttamente la città! Abbiamo poi integrato anche l’hip-hop con la voce di Ensi. Immaginiamo che questi rumori (il traffico, le campane, gli ingranaggi delle fabbriche, i segnali acustici dei mezzi pubblici, le voci degli stadi, i fiumi, le fontane, i mercati…) diventino una tavolozza capace di dipingere uno sfondo ritmico sonoro per altre voci musicali del medesimo luogo. Tra i brani ad esempio c’è Turet, che racconta il suono dell’acqua della città. Vogliamo continuare questo percorso approfondendo ancora la ricerca.
Quale è stata la reazione a Glasstress?
Direi molto buona. Siamo molto contenti perché abbiamo appena vinto il premio di musica sperimentale in Italia Toast proprio per Glasstress, e questo premio, totalmente inaspettato, ci dà l’idea di andare nella giusta direzione. Il Premio Toast è dedicato a tutti coloro che si esprimono attraverso la ricerca espressiva strumentale, senza limiti di genere (pop, rock, ambient, jazz, classica, sperimentale, wave, ethno, lougue, industriale, folk, colonne sonore, musica sacra). Questa la motivazione: “per l’anno 2016 si è ritenuto premiare Glasstress (Musica Di Vetro) (Bad Panda, 2016) per l’inedita elaborazione che ha trasformato audacemente i rumori prodotti da una fornace per la lavorazione del vetro in una ipnotica, avvolgente, colonna sonora”.