Le pere di Helmut Newton alla Gam di Torino. Da non mettere insieme alle mele, sia chiaro.
La GAM di Torino ospita, è proprio il caso di dirlo, Helmut Newton. Works. Una retrospettiva di 68 stampe fotografiche di qualità mediamente professionale in bianco e nero e a colori, di medie e medio-grandi dimensioni, selezionate dal curatore Matthias Harder della Helmut Newton Foundation di Berlino.
Il curatore, assente giustificato per malattia alla conferenza stampa, è stato sostituito dal suo amico Denis Curti il quale, durante la presentazione dell’opera di Newton, ha dichiarato che mostre come questa ne aveva già portate in giro in Italia in altre sedi e che comunque quest’anno Milano dedicherà allo stesso Newton una grande mostra di circa 200 opere nell’occasione del centenario della nascita. Ricorrenza che invece il direttore della GAM Riccardo Passoni aveva poco prima detto di non essere stata il motivo della mostra torinese.
Qual è stato allora il motivo per portare a Torino ancora una volta l’opera di Newton dopo l’eccellente personale al Castello di Rivoli del 1999?
Una possibile risposta a questa domanda contiene elementi utili di riflessione sulla politica culturale della GAM e più in generale su quella oggi troppo spesso perseguita in Italia dalle istituzioni pubbliche e private verso la fotografia. L’ipotesi più verosimile è che la Fondazione berlinese proponga in giro per il mondo mostre “chiavi in mano” dai costi abbordabili per sostenere l’interesse verso l’opera di Newton. In modo non troppo dissimile da quanto fanno altri, vedi il Maradona della moltiplicazione delle mostre: Steve McCurry.
L’offerta è di certo allettante per diversi motivi. Oltre ai costi contenuti, la curatela è già inserita nel pacchetto e il catalogo è già stampato, perché esiste un libro di Taschen che contiene le fotografie esposte, e molte altre, che ha quasi lo stesso titolo: “Helmut Newton Work“.
Non resta che allestire per bene le sale, con la consueta bravura dimostrata in ogni occasione, e voilà il gioco è fatto. Fino al 3 maggio 2020 abbiamo qualcosa che porterà potenzialmente un buon sbigliettamento (le pere di Newton attirano sempre un certo pubblico trasversale) e si dà l’impressione positiva che qualcosa si stia facendo, nonostante i bilanci sempre più risicati e un certo abbandono strategico a cui la GAM sembra condannata dai partner di riferimento, disposti sempre meno ad investire sulla produzione di cultura in loco e sempre più a provincializzarsi accontentandosi di riciclare l’usato sicuro pensato e prodotto altrove.
Ora, il fatto che in Italia la fotografia sia ancora considerata il comodo “salvagente economico” dei budget limitati sta diventando un problema di ritardo culturale sempre più intollerabile.
Si sconta, temo, una certa sufficienza intellettuale nei confronti di un mezzo che mai come ora ha conosciuto il massimo della diffusione con una pratica globale alimentata ogni giorno dalla rete e dai social e che invece, forse proprio per questo, sta paradossalmente perdendo la dignità artistica faticosamente conquistata nel Novecento. Alla conferenza stampa l’unica domanda, che non era tale, l’ha proferita un signore che asseriva essere la fotografia un’arte minore perché mentre un Picasso, o altro pittore famoso, di opera ne fa una e una sola per volta faticando notti intere (sic) un fotografo si limita a fare delle foto e poi le può anche far vedere in più copie in più luoghi contemporaneamente (e qui ha immancabilmente citato il mitico McCurry). Nessuno lo ha seguito, forse era un tizio uscito dall’ibernazione ieri che si è perso un secolo abbondante di storia, però è rivelatore di un pensiero che sotto sotto non è così isolato, almeno qui da noi. Chi vivrà comunque vedrà.
Tornando ad Helmut, che dire? La vera scoperta è stata un’immagine del muro di Berlino del 1981, tra l’altro non un granché, senza nessuno nell’inquadratura. Unica stampa in mostra. Ci sono poi i ritratti, forse oggi un po’ datati, ma sempre interessanti. Il resto del mondo erotico/eretico buono per “épater le bourgeois” lo si conosceva già, magari in questo caso moderato per non alimentare troppo le polluzioni notturne dei notoriamente morigerati sabaudi.
Newton rimane un grande iconografo delle inquietudini di chi vorrebbe, ma non può. Non perché manchino i soldi, che nelle foto si vedono esibiti nel lusso costante, ma perché manca il coraggio di prendersi anche le conseguenze reali di una vita eccessiva. Allora meglio divagare davanti a superdonne ultradesiderabili perché perfette, algide, ma anche per fortuna mute e inalterabili, senza mestruazioni e recriminazioni post coitum.
In questo senso, la vera donna in mostra è June Newton, alias Alice Springs, l’altra faccia della stessa autorialità. Come tradizione tedesca, vedi i coniugi Becher, ora forse si può pensare ai coniugi Newton, invece che al solo Helmut e questo spiegherebbe quell’equilibrio sottile che impedisce al testosterone di rovinare tutto e rende l’universo newtoniano perfettamente gravitazionale nelle sue pere.
Curioso che in questo 2020 si passi dalle donne di Man Ray a quelle di Newton. Un passo indietro, non per farne due avanti temo. E le donne che vedranno la mostra? Aspettiamo con curiosità di sentire la loro voce.
Fulvio Bortolozzo