Lingue rosse come fiamme o come vagine, o entrambe escono in tutte le direzioni da bocche di foggia classica prese a prestito da un vecchia stampa, bocche femminili, simili tra loro, una mirabolante variazione sul tema di un’energia (anche sessuale) incontenibile e irreverente.

 

Carol Rama Lusinghe

E’ Lusinghe, piccola opera del 2003, tecnica mista su carta intelata, l’immagine guida scelta per La Passione secondo Carol Rama, inaugurata ieri alla GAM e visitabile sino al  5 febbraio 2017: una piccola opera che ben racchiude le tematiche dell’artista torinese (tra cui non ultima l’impertinente citazione al corredo decorativo borghese da dissacrare) e, fatto degno di nota, proveniente dalla prestigiosa collezione privata di Charles Asprey, elemento che porta in sé le stigmate di un successo finalmente internazionale, finalmente riconosciuto, all’alba di una crescita di quotazioni nel mercato dell’arte che si preannuncia esponenziale, anche grazie alla collaborazione di due gallerie internazionali che ora la rappresentano, Isabella Bortolozzi di Berlino e Dominique Lévy di New York.
Questa di Torino è la ultima e conclusiva tappa della mostra itinerante europea dedicata all’artista torinese, Olga Carolina Rama, mancata lo scorso anno nella sua casa-studio di Via Napione a 97 anni, dopo le mostre al MACBA, Barcelona, ​​al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, all’Irish Museum of Modern Art  di Dublino e all’Espoo Museum of Modern Art, Finlandia. 

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Inaugurazione

La GAM, che ha coprodotto la mostra, è stata scelta come ultima sede del percorso per concludere l’itinerario a Torino, nella città dove l’artista ha sempre vissuto e lavorato, e nel museo dove molti suoi capolavori sono conservati.
Già nel 2004 la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo dedicava a Carol Rama un’importante mostra a cura di Guido Curto e Giorgio Verzotti, un anno dopo del più grande riconoscimento (comunque tardivo, quando aveva più di 80 anni) avuto in vita, l’assegnazione del Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia.
L’esposizione alla GAM, curata da Teresa Grandas e Paul B. Preciado, consta di circa 200 opere che abbracciano settant’anni di carriera (dal 1936 al 2005), e conferma oggi il successo internazionale di un’artista ignorata per decenni dalla storia dell’arte ufficiale  – ed è questa la più grande, scomoda verità per un’artista che ha pagato il non essere mai contemporanea al suo tempo – il cui apporto è oggi riconosciuto come elemento anticipatore ed essenziale per comprendere gli sviluppi dei movimenti artistici legati alle teorie femministe sull’identità imposta di generi sessuali e su una certa modalità esecutiva di bad painting di assoluta attualità, che racchiude in sé elementi surrealisti, dadaisti, brut, tanto da rimandare persino a Paul Klee o Dubuffet. La sua influenza può essere letta nel lavoro di una generazione successiva di artisti come Cindy Sherman, Kara Walker, Sue Williams, Kiki Smith.

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La Macelleria

Lungi dall’essere esaustiva, ma neppure retrospettiva, essendo organizzata con l’artista ancora in vita, data la grande produttività dell’artista, l’esposizione è un interessante excursus che raggruppa le opere per aree tematiche e non per cronologia, permettendo una ricchezza di vedute d’insieme, una reiterazione funzionale a comprenderne le fasi creative, i momenti in cui arte e vita si sono indissolubilmente legati in opere parlanti, ossessive.
Particolarmente interessanti la sezione in cui sono esposti gli acquerelli di piccolo formato degli anni ’30-‘40 in cui l’artista racconta l’esperienza della reclusione in istituto (fu probabilmente la madre a essere internata in un ospedale psichiatrico) e della morte (il suicidio del padre, notizia mai veramente confermata), affrontate come un diario intimo visivo, una serrata denuncia alle cure psichiatriche simili a quelle di un sistema carcerario, un inferno al quale reagire con una grande energia, vitale e sessuale, estrema dichiarazione di sopravvivenza. Come disse Aldo Cazzullo per ricordarne la scomparsa, Carol appare qui “una Frida Kahlo senza il fascino di una storia sudamericana e internazionalista alle spalle, ma più brava con il pennello”.
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Da un punto di vista meramente decorativo, non può non far riflettere l’uso della treccia come elemento iconografico e distintivo per entrambe le artiste, segno forte e femminile, che diventa marchio identitario di fascino per due donne che non si sono mai sentite belle, ma che hanno sedotto tutti.
Bella la sezione sulle opere che raccontano, nel decennio degli anni Cinquanta, l’adesione al Movimento di Arte Concreta (MAC) per dare, secondo la sua stessa espressione, “un certo ordine” e “limitare l’eccesso di libertà”. Da allora firmerà le sue opere come Carol Rama. Il nome Olga, così come le figure che portarono alla censura, saranno eliminati.

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Appassionata

Poco a poco Carol Rama si disfa delle convenzioni geometriche del MAC e inizia a sperimentare con nuovi materiali e nuove tecniche. La svolta verso l’astrazione la porta a giocare, negli anni Sessanta, con l’arte informale e lo spazialismo e a sviluppare i suoi bricolage: mappe organiche fatte di unghie, cannule, segni matematici, siringhe e componenti elettrici, riorganizzando in maniera aleatoria materiali organici e inorganici. Per realizzare opere da sperimentare a più livelli di lettura.
Negli anni Settanta si ricollega nuovamente alla sua biografia attraverso l’intensità dei materiali. È in quest’epoca che impiega quasi esclusivamente la gomma proveniente dai pneumatici delle biciclette, materiale che conosce bene poiché il padre aveva avuto una piccola fabbrica che tra l’altro produceva biciclette a Torino. Carol Rama disseziona i pneumatici e li trasforma in “organismi ancora ben definiti e vulnerabili”.
Negli anni Novanta, quando Carol Rama cerca un luogo di identificazione, non ricorre a figure della femminilità, bensì alla figura dell’animale malato affetto da encefalopatia spongiforme bovina: la mucca pazza. Gli elementi e motivi caratteristici di Carol Rama (il caucciù, le tele dei sacchi postali, i seni, le lingue, i peni, le dentature…) si riorganizzano per formare un’anatomia distorta che non può più costituire un corpo. Ciò nonostante, Rama si spingerà fino a definire questi lavori non-figurativi come autoritratti.
Autoritratti della prima fase della sua carriera che mancano alla mostra e che avrebbero forse chiuso perfettamente un cerchio di autoanalisi feroce quanto struggente: 
Di sé diceva: “Il lavoro, la pittura, per me, è sempre stata una cosa che mi permetteva poi di sentirmi meno infelice, meno povera, meno bruttina, e anche meno ignorante… Dipingo per guarirmi”.

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Autoritratto 1938

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