Cos’è il Libano per me? Il Libano è il tassista che, 15 minuti dopo che sei atterrato, ti saluta con un “Italiani? Roberto Baggio”! Il Libano è abbracciare in un solo sguardo decine di grattacieli di cristallo e acciaio nuovi di zecca e centinaia di condomini diroccati. Il Libano è la piazza principale di Beyrut con la moschea e la chiesa maronita fianco a fianco (e dietro, le rovine romane!). Il Libano è scoprire e ammirare siti di archeologia e architettura Romana che fanno invidia ai Fori Imperiali, l’Heliopolis di Baalbek, i fori di Tiro, le rovine di Beyrut . . .
Il Libano è al mattino temere di essere scippati in Shatila (ed invece per 3 volte mi sono aggirato tranquillo, con la mia attrezzatura fotografica da alcune migliaia di euro, in mezzo alla gente poverissima del Campo Profughi senza essere mai disturbato) ed alla sera rischiare di essere investiti da una Chevrolet dorata (giuro! mi ha salvato il mio collega Luca tirandomi per lo zaino) camminando per le vie del centro…
In Libano ho sentito di trovarmi in un Paese molto “affine” all’Italia, al di là delle ovvie differenze. Un popolo cordiale ed accogliente, un territorio potenzialmente stupendo ma un po’ trascurato e non valorizzato. Anche come tenore di vita mediamente il Libano è molto simile a noi, ma è come se uno scienziato, in laboratorio, avesse preso la società italiana, arricchendo enormemente la piccola parte di ricchi, ed espandendo a dismisura la già grande porzione di poveri.
Una “polarizzazione” che non giova affatto al ceto medio, che anzi per questo contesto (ed anche ovviamente per la guerra civile che ha insanguinato il Libano dal 1972 al 1990!) patisce e si assottiglia sia come numero di persone che come ricchezza media.
Questa situazione danneggia ovviamente tutte le strutture pubbliche e statali; in Libano ci sono grandi problemi nella raccolta rifiuti, nel trasporto pubblico (praticamente inesistente: nessuna ferrovia, quasi nessun autobus pubblico, tutta la mobilità è rimessa ai taxi e a incerti pulmini improvvisati), nella fornitura di energia elettrica (anche nella capitale, in una settimana ci è capitato un paio di volte di restare senza elettricità) e di reti di comunicazione.
La conseguenza è che anche i ricchi, quando escono dai loro grattacieli sul lungomare di Beyrut, si trovano a fare jogging davanti al bellissimo mare libanese, ma in mezzo a bottiglie di plastica, spazzatura, e sempre contornati da un traffico invadente e fastidioso, ebbene sì, anche a Beyrut, come a Palermo, direbbe Jonny Stecchino, c’è una piaga terribile: “il traffico!”.
In questo contesto “difficile”, la vita va comunque avanti: le persone conducono le proprie esistenze con normalità, con dignità. La gente va a lavorare o a fare acquisti, i giovani riempiono le strade delle città, vanno nei bar alla sera, le famiglie (moltissime famiglie giovani: ho visto tante coppie di venti-venticinque anni con uno se non due figli) escono a divertirsi… C’è chi veste all’occidentale ma anche molti con abiti arabi-musulmani: ragazze e donne velate a fianco di donne a capo scoperto, molte donne fumano (anche quelle con il velo), moltissimi fumano l’Arghillè (soprattutto nei bar-ristoranti); gli uomini, da buoni musulmani, portano la barba, ma curata, quasi alla “hipster”.
È all’interno di questa cornice che poi si inserisce il discorso dei profughi: uno Stato già in difficoltà, con 4 milioni di abitanti, si trova ad avere dentro i propri confini 500 mila persone che sono profughe dalla Palestina, arrivate a causa del conflitto arabo-israeliano (in diverse ondate: nel ’48, nel ’67, nel ’73 e nel 2000), e negli ultimi anni, “grazie” alla guerra in Siria, ha dovuto accogliere altri profughi da quella nazione. Si tratta di circa un milione di altri profughi, palestinesi che si erano insediati in Siria ed ora sono fuggiti dal conflitto.
L’accoglienza dei profughi per il Libano è una “fatica” considerevole, che viene fatta con luci ed ombre. Di fatto, ai profughi viene riconosciuto e garantito un luogo dove vivere. Sono 12 i campi-profughi ufficiali palestinesi sul territorio libanese. Ma, dicevamo, ci sono luci e ombre: se da un lato nei campi ai profughi è assicurato un luogo sicuro dove vivere, dall’altro il livello di vita è davvero basso. Sporcizia, elettricità solo poche ore al giorno, acqua dei rubinetti salata, sviluppo urbanistico incontrollato e irrazionale (siccome l’area dei campi non può espandersi, con l’aumento della popolazione nel corso degli anni gli edifici si sono sviluppati ed ampliati verso l’alto, con la conseguenza che le case ora sovrastano in misura abnorme le piccole strade, che quindi restano buie tutti il giorno e risentono di una circolazione malsana dell’aria).
Eppure, come dicevamo prima, anche qui, in questo contesto ancora più “degradato”, la vita va avanti con normalità e dignità. Sembra retorico ripeterlo, ma non lo è. Abbiamo avuto la “fortuna” di entrare nei campi profughi accompagnati dagli operatori della ONG “Beit Aftal Assumoud” e grazie al loro appoggio abbiamo potuto vedere realtà alle quali non è scontato accedere (il corrispondente da Beyrut di un noto giornale italiano, che pure da poco è stato ad Aleppo, in Siria, ci ha confessato che lui stesso non è mai riuscito ad entrare “in sicurezza” dentro i campi-profughi). Ebbene, io stesso mi aspettavo, nei campi profughi, di trovare gente disperata, triste, in abitazioni fatiscenti. Sbagliato. La realtà ha scardinato questi miei “stereotipi”. Anche dentro un campo, dove per le strade c’è immondizia, traffico, scarichi a cielo aperto, dentro le case regna l’ordine e la pulizia. I bambini dormono in camerette linde, in letti comodi; al mattino madri e padri danno il bacio ai figli, e fanno fatica a farli alzare dal letto; alle pareti delle stanze ci sono immagini dei cartoni animati (nella casa della bimba che abbiamo visitato noi, era il poster delle “Principesse Disney”) ed anche loro hanno il proprio personaggio del cuore (nel nostro caso, Jasmine… ovviamente).
Non è che le difficoltà non ci siano o non si vedano. Tutt’altro: “Com’è per un adolescente svegliarsi in un campo profughi?” abbiamo chiesto entrando in una delle classi di “vocational training” (la nostra formazione professionale). “It’s like hell! È come l’inferno!”, ci hanno risposto. “E come sopravvivi – ho ribattuto – come vai avanti dentro l’inferno?”; “You get used to it! Ti ci abitui”!. Eppure quei 15 ragazzoni palestinesi, tra i 16 ed i 18 anni, invece di stare per le strade “to do bad things, a fare brutte cose” erano lì, a frequentare il corso di formazione, organizzato da Assumoud, per imparare a fare il parrucchiere e indirizzarsi a trovare un lavoro…
Storie di “resilienza”. Come quella di Layla, laureata in Scienze dell’Educazione e operatrice sociale nel Centro Naher, che scansando un topo morto “incontrato” mentre ci accompagnava a visitare il campo El Bared, a nord di Tripoli, esclama “eh… questa è la nostra vita!”, però alla domanda “perché non te ne vai da qui?”, risponde con un sorriso triste ma determinato “per aiutare la gente… è il mio lavoro. Non posso abbandonare i bambini e la mia comunità palestinese”.
Dentro i campi profughi abbiamo avuto la fortuna di ammirare le attività di diverse associazioni, che hanno creato e portano avanti da decenni progetti di sostegno e promozione sociale. Tra tutte, appunto, Assumoud, che in ogni campo palestinese ha un centro, dove ci sono asili, corsi di formazione, corsi di recupero (perché ai profughi è garantita un’istruzione “pubblica” in scuole riservate, gestite dall’UNRWA, ma è molto carente: 50 bambini per insegnante…), ambulatori medici e dentistici, sostegno psicologico, psicomotricità, musicoterapia, supporto famigliare, scout, cori e gruppi musicali (tra i quali, anche un gruppo di cornamuse!). Ed a colpire non è solo quello che si fa, ma soprattutto lo stile e la qualità: se fuori, negli spazi “pubblici” del campo c’è sporcizia e degrado, dentro questi luoghi regna la bellezza, l’ordine, la pulizia… la dignità.
Questo viaggio mi ha aiutato ad “indossare occhi nuovi” e a guardare il mondo con uno sguardo diverso: più “critico”, ma allo stesso tempo più “semplice”, superando (o almeno mettendo in discussione) i miei preconcetti e le idee dominanti. Mi è apparso chiaro così che il Libano (come anche ogni altro luogo “povero” o per meglio dire in via di sviluppo) non è un posto pieno di problemi dove, per fortuna arriviamo noi occidentali ad aiutare; in Libano (come anche in ogni altro luogo “povero”) la vita va avanti con normalità, in mezzo ai problemi quotidiani, che qui sono più grandi rispetto che da noi. E anche qui la gente si attiva, ottimamente, per risolvere le proprie difficoltà con processi di sviluppo. Una buona cooperazione parte da questa prospettiva, per sostenere le azioni locali già in atto, e non si sostituisce alle realtà “indigene”.
Ed infine, questo viaggio, mi fa guardare anche al “mio mondo” in modo differente e mi è di monito con due stimoli. Primo. Quanti problemi che ci paiono enormi, posso essere relativizzati: dalla paura della povertà a quella dell’immigrazione (se un paese di 4 milioni di abitanti, grande come mezzo Piemonte, accoglie un milione e mezzo di immigrati, può l’Italia andare in difficoltà spasmodica per percentuali e masse di stranieri enormemente minori?). Secondo. La nostra bella Italia è lontana anni luce dalla situazione problematica libanese… ma facciamo attenzione a non dare tutto per scontato: non sottovalutiamo i segnali di pericolo, e lavoriamo per evitare quelle degenerazioni (polarizzazione poveri-ricchi, debolezza statale nei servizi), imboccando azioni contrarie.
Foto e testo di Andrea Tomasetto