Fulvio Abbate scrive da venticinque anni. Lo fa per mestiere, anche se non si “fa” l’artista: o lo si è o non lo si è. Venticinque anni di parole, limature, correzioni, sacrifici. Scontri, perché Abbate è un uomo di carattere e certo non si tira indietro se si tratta di esprimere la propria opinione. Venticinque anni “di m …”, dice lui, in cui si è trovato solo di fronte a mediocrità, conformismo, grettezza e subalternità a logiche di convenienza e familismo che hanno qualcosa di spaventosamente simile alla mafia.
abate

Proprio nella sua personale lotta a un sistema che lo ha schifato, Abbate ha deciso nei mesi scorsi di autocandidarsi al Premio Strega con il romanzo “Intanto anche dicembre è passato” (Baldini&Castoldi 2013) avvalendosi dell’appoggio di alcuni suoi colleghi tra i famigerati “Amici della Domenica” sapendo già che non avrebbe fatto parte nemmeno della cinquina di finalisti, non tanto per il valore effettivo del suo lavoro, quanto perché non pubblicato con uno dei mostri sacri che nell’ultimo decennio si spartiscono il premio di anno in anno. Una candidatura che lui stesso definisce “contro la P2 di sinistra” che governa le cose della cultura in una rete di amicizie e scambi di favori che vanno dalle recensioni ai passaggi televisivi, e oltre. Un sistema ormai diffuso non solo in politica o in editoria, non più riformabile se non con una presa di coscienza individuale in cui nemmeno l’autore ha fiducia.

Dopo la candidatura annunciata e spiegata a gran voce, come pure è successo con gli articoli apparsi su Satisfiction (ma anche su Il Fatto, Il Garantista, Libero e sul sito Dagospia), la protesta non ha smosso il polverone sperato. Silenzio, anzi. Nessuna dichiarazione, nessun passo indietro, come se Fulvio Abbate fosse invisibile. Solo, ribelle fino in fondo, Abbate appare come un eroe postmoderno. Sfiduciato ma non per questo abbattuto, ha continuato fino alla serata finale a proclamare le motivazioni della sua lotta e continuerà ancora.
Al direttore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi, unico a rilasciare un’intervista proprio a Satisfiction poco dopo la serata finale, Abbate risponde:
«Tuttavia non credo che lo Strega sia “riformabile”, così come non lo erano i paesi del socialismo reale, in quanto piccola eppure cospicua parte di una costellazione clientelare che risponde a un sistema ben più diffuso di familismo amorale, meschinità personali, assenza di coraggio civile e perfino di estro, ossia di talento umano, letterario e addirittura erotico, e poi di corruzione tout court, così come non lo sono le pagine culturali dei principali quotidiani, Radiotre, le case delle letterature, i festival della letteratura, tutto ciò che procede per cooptazione politica che ha tutti i tratti della lobby, del sistema mafioso, non per nulla ho parlato di P2 di sinistra, resta, ripeto, la possibilità del gesto individuale del singolo autore (autore di se stesso, intendo) che dica no, e si alzi in piedi. Il resto, ai miei occhi, è soltanto contenzioso sindacale, tristezza rivestita di masonite da sala d’attesa di un Patronato o CAF scambiato per deserto dei tartari.» (fonte la pagina face book dell’autore, privacy pubblica)
Citando Pasolini, senza voler apparire retorico, afferma che “l’artista è sempre una contestazione vivente”, soprattutto in questo tempo in cui pare prevalere il pensiero unico e l’appiattimento generale. Abbate non ha fiducia in nessun potere politico o editoriale, di certo lo stato delle cose a questo potere fa comodo com’è. Ha perso la fiducia nel lettore, ormai imbrigliato e imbrogliato oltre misura e incapace di un giudizio critico. «In confronto al lettore odierno – dice – mia zia Gioconda, abbonata al Club degli Editori, sembra un critico letterario del calibro di Gianfranco Contini»
Zia Gioconda appare anche nel romanzo di Fulvio Abbate, “Intanto anche dicembre è passato”, un romanzo di formazione e autobiografico ma non solo. In qualche modo “onirico”, ha il sapore dolce dei ricordi dell’infanzia e delle sue fantastiche presenze che si mescolano alla realtà creando un mondo “altro” che fa sorridere e al contempo risulta poetico e dissacratorio. Un libro che parla di infanzia, di amore e della perdita, della morte.
Alle domande sul futuro dell’editoria, del Premio Strega, del libro e simili, Fulvio Abbate non risponde. Non lo sa e non gli interessa. Non vuole parlare di arroganza o cecità, ma parla di ignoranza. Lo fa scarpinando in salita mentre io gli parlo seduta al bar aspettando un temporale che per fortuna non mi troverà in strada. Lo fa con energia, con la linea che va e viene e dandomi del tu. E mi parla di Teledurruti, la sua televisione monolocale su Youtube, e della delusione della sinistra organica al sistema di potere. Ma alla fine mi fa pensare che forse di speranza io ne ho ancora. Non nella politica, non io. Ma nella lettura buona, sana e di qualità. Una lettura che non ha bisogno di fascette e premi, ma solo di parole ben scritte che mi trascinino altrove insegnandomi la vita di qualcun altro. Perché non credo che ci sia ignoranza più grande di quella di non sapere chi sia l’altro.
E se anche poco dopo inizia a piovere, mi sento meglio.

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