Alla redazione di GazzettaTorino attraverso percorsi, diremmo cocleari, è arrivata una segnalazione che non potevamo non cogliere e cercare di approfondire. La missiva sosteneva che fosse uscito in spregio alle direttive di confinamento personale e persino intellettuale un libro che proprio sulla città aveva puntato il suo faro, il suo occhio di bue cinematografico. Un noir o come dicono i francesi un polar ambientato negli anni del dopo guerra.
Si intitola L’ombra del passato, edito da Mimesis e scritto da Stefano Sciacca. Sciacca, torinese, classe 1982, ha alle spalle una forte preparazione giuridica e cinematografica che consente un taglio molto particolare al testo. Così ci siamo addentrati nel suo mondo rivolgendogli un’intervista.
Come costruisce, concilia e propone nel suo romanzo il rapporto tra immagine e scrittura?
La componente visiva è fondamentale nel mio lavoro creativo. Sono un grande appassionato di cinema, al quale in passato ho dedicato due studi critici, nonché di arti figurative. Perciò mi risulta inevitabile, quando scrivo, attingere al repertorio di immagini di cui dispongo. Allo stesso tempo, in quanto lettore, sono consapevole che il cinematografo ha in qualche modo inaridito e atrofizzato ciò che Italo Calvino definiva il nostro «cinema mentale», l’immaginazione alla quale la fantasia fa ricorso per dare forma a quanto legge. Sono convinto che ogni libro riceva tante trasposizioni cinematografiche quanti sono i suoi lettori e ciascuna di quelle sarà diversa dall’altra, come del resto capita anche nel caso di questi.
Nondimeno, trovo che possa essere interessante la condivisione da parte dell’autore dei riferimenti dai quali ha tratto spunto: nel mio caso, hanno esercitato notevole influenza le atmosfere notturne-metropolitane, sature di vizio e pericoli, tipiche di film come Il mistero del Falco (1941) e Giungla d’asfalto (1950) di John Houston, La fiamma del Peccato (1944) di Billy Wilder, Il bacio dell’assassino (1955) di Stanley Kubrik e, appunto, anche L’ombra del passato (1944) di Edward Dmytryk. Inoltre come negare che alcuni passaggi, fortemente visivi, del romanzo siano stati ispirati dall’uso espressionistico delle ombre tipico del cinema di Weimar e poi di quello noir hollywoodiano?
La città descritta nel libro, ora un pandemonio meccanico, ora un inquietante deserto, risente della violenza dei dipinti di James Ensor, di George Grosz e di Ernst Ludwig Kirchner tanto quanto dell’enigmaticità di Edward Hopper, di Giorgio de Chirico e di Mario Sironi.
Per scrivere del passato e di una città occorre documentarsi a lungo. Quali sono state le sue fonti?
È vero, cercare di inventare l’anima di una città non è affatto semplice. Con il termine «inventare» non intendo riferirmi a una finzione ma, rifacendomi all’etimologia latina del termine, alludo all’incontro.
Nel caso de L’ombra del passato, però, ho beneficiato di diversi vantaggi.
In primo luogo, avendo già pubblicato nel 2014 un romanzo thriller-espressionista, intitolato Il diavolo ha scelto Torino, per realizzare il quale dovetti studiare molto, ho recuperato il materiale a mia disposizione. Quella storia era ambientata negli anni ’30 del secolo scorso e io, allora, cercai fotografie e documenti dell’epoca e persino antecedenti, digitalizzati sul sito del Comune di Torino o disponibili presso altre piattaforme online, come l’archivio di MuseoTorino.it, ricchissimo, assai attendibile e curato davvero con molta passione e competenza.
Poi, camminai moltissimo, scattando fotografie a palazzi, vie, scorci. E quest’abitudine, che si potrebbe forse definire deformazione professionale, non è più passata: ancora oggi, infatti, continuo ad andarmene a spasso con il naso rivolto verso l’alto. Potrei apparire molto distratto, eppure, se solo m’imbatto in un portone aperto, ecco che sgattaiolo dentro a immergermi nell’atmosfera di un androne e a cercare di immaginare la vita di coloro che negli anni lo hanno attraversato, pieni di speranze e di paure, di gioie e di dolori.
Così, ho inventato la mia Torino e intrattenuto con lei un rapporto molto intimo.
In secondo luogo, per ricreare l’aspetto di una città italiana all’indomani della fine della guerra, mi sono affidato ai capolavori del nostro cinema neorealista (affine, per tanti aspetti al noir americano). Non solo a quelli citati da Steve Della Casa nella sua prefazione al romanzo e ambientati proprio a Torino, ma anche alle pellicole di Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica che, pur calati in altre realtà urbane, restituivano tutti la medesima impressione di un’Italia in ginocchio ma ancora sorprendentemente sana e, forse, destinata a un futuro migliore di quello al quale andiamo incontro noi.
Per questo, del resto, amo ambientare le mie storie nel passato (pur trattandosi di una scelta per certi versi controcorrente e certamente poco astuta sotto il profilo commerciale): è l’occasione per evadere da una realtà, quella contemporanea, sociale – e, passatemi la battuta, anche editoriale! – che proprio non amo. Come qualunque antieroe noir, anch’io spesso avverto l’impressione di trovarmi fuori tempo. Ma di certo non fuori posto. Torino è casa mia e non traslocherei per nulla al mondo.
Licenziare l’uscita di un romanzo per molti aspetti rappresenta, per citare un noto film, una Grande illusione. A che tipo di “illusione” potrebbe andare incontro?
La mia illusione legata a questo romanzo sarebbe quella di potermi finalmente definire uno scrittore. Essere cioè riconosciuto dal mondo come tale e, su questo riconoscimento esterno, fondare la percezione che ho della mia identità. Purtroppo, nonostante i migliori propositi e i massimi sforzi, non avverto ancora di possedere un’identità autoriale, talvolta non avverto di possedere un’identità punto.
Per un autore è inevitabile riflettere sul senso dell’esistenza e delle scelte che la orientano, determinando conseguenze spesso impreviste o indesiderate.
Nel mio caso, la scelta di dedicarmi a tempo pieno all’attività letteraria ha avuto per fatale conseguenza l’incontro con una realtà, quella editoriale, rispetto alla quale non credo di essere affatto portato. Una realtà che ho scoperto affetta da molti dei vizi, dei pregiudizi e delle contraddizioni che affliggono la moderna società borghese. La quale, per inciso, costituisce un altro oggetto dei miei studi e delle mie riflessioni, un oggetto particolarmente ricorrente, quasi ossessivo.
Dunque la mia illusione è, si può dire, la medesima di ogni scrittore che non abbia sperimentato vantaggi e limiti del mecenatismo ma si sia, al contrario, dovuto confrontare con la realtà, tipicamente borghese, del mercato: da Shakespeare a Balzac, da Dostoevskij a Fitzgerald, in molti subirono l’assillo della reputazione. E presero le distanze, un po’ per difesa, un po’ per risentimento, dalla moderna logica dell’utile che ha ridotto l’arte e le idee a una merce come qualunque altra e ne ha valutato il pregio in ragione quasi esclusivamente del successo commerciale. Salvo, così agendo, cadere vittime di una umanissima contraddizione: ragionare esattamente come i borghesi che tanto disprezzavano.
La mia illusione, dunque, è di potermi dotare di un’identità autoriale della quale i miei famigliari, mia moglie e mia figlia possano essere orgogliosi. Ma si tratta di un errore dettato dalla vanità. L’illusione o, meglio, la speranza dovrebbe essere piuttosto quella di dare alla luce una creatura che possa vivere, attraverso gli altri, i lettori, esserne accresciuta e accrescerli, fondare una condivisione, giacché scrivere e leggere non sono altro che atti di condivisione. Un termine però un po’ desueto in una realtà sociale fondata, all’opposto, unicamente sullo scambio.
Chi è Stefano Sciacca, cosa pensa della Torino odierna e quale angolo, via, piazza, parco della città sente come proprio.
Come ho anticipato mi è difficile rispondere a una domanda sulla mia identità. E, del resto, mi consolo pensando che una tale risposta sarebbe in verità preclusa a chiunque, anche a coloro che avvertissero di possedere un’incrollabile certezza di sé. Se c’è una cosa della quale sono certo è che non esista proprio alcuna certezza assoluta. Tutto è relativo nella percezione della realtà, sia essa interiore o esteriore.
Quanti protagonisti della letteratura da Gogol a Pirandello, passando per Dostoevskij, hanno subito un totale tracollo della personalità dopo essersi osservati allo specchio e aver scoperto che l’immagine che custodivano di se stessi non corrispondeva affatto a quella riflessa nel vetro o nello sguardo altrui!
Lo stesso vale appunto per ciò che ci circonda, per la scenografia sulla quale proiettiamo il nostro sguardo interiore. Una delle caratteristiche del cinema espressionista tedesco era il metamorfismo scenografico, vale a dire la deformazione dello spazio scenico in ragione dell’alterazione psichica del personaggio del quale si assumeva la prospettiva (perlopiù disturbata o patologica).
Questo avviene anche ne L’ombra del passato, la cui vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, un investigatore privato cinico e disilluso, il cui sguardo ingrigito ingrigisce la maggior parte delle cose che vede. Ma Artusio – così si chiama il nostro uomo – non potrebbe vivere lontano da Torino e, del resto, non potrei neppure io, per quanto alle volte essa assuma l’aspetto terribile delle mie peggiori paure.
Esistono punti della città che non amo frequentare, giacché ricollego a essi vecchie ferite ancora non rimarginate, e luoghi invece nei quali ritrovo la spensieratezza della fanciullezza o la gioia dei momenti più felici. Luoghi del tutto anonimi per il resto della cittadinanza, ma assolutamente unici per me. Luoghi di culto e di pellegrinaggio quando, in preda allo sconforto, esco a fare due passi per ritrovare un po’ di serenità.
Ma preferirei non svelarli, nel caso in cui l’illusione diventasse realtà e io finissi per essere così famoso da dover temere orde di fan appostati ad aspettarmi. No, quei luoghi vorrei continuare a percorrerli da solo o in compagnia delle persone che mi amano davvero per aver saputo vedere la parte migliore di me.
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