Il provincialismo un po’ barotto/sabaudo, per quel che resta di “sabaudità” a Torino, porta irrimediabilmente allo stupore colorato di polemica verso qualunque novità deturpatrice dello status quo monumentale ed architettonico del capoluogo piemontese, si sta scatenando contro il “Lucifero” di Piazza Vittorio, quota a parte e new entry delle ormai celebri “Luci d’artista” che illuminano l’inverno nebbioso e malinconico della Torino in bilico tra l’esoterico e l’olimpico.
Diverse correnti di pensiero pretendono che l’arte vada capita oppure semplicemente osservata, accolta, in attesa di quel fremito inspiegabile che crea che quell’alchimia grazie alla quale un’opera riesce a suscitare emozione. L’espressione artistica assume un aspetto puramente soggettivo, intimo, personale, non conducibile a canoni standardizzati e prefissati che ricondurrebbero il fenomeno artistico ad una pura espressione tecnicistica e manieristica.
L’arte contemporanea, in più, ha il pregio (non sempre) di provocare, di scuotere un immaginario collettivo costretto in canoni sempre uguali; invoglia ad astrarre, ad uscire dagli schemi, a ragionare e guardare sotto prospettive diverse, inusuali.
E’ giusto, allora, che si crei un dibattito, si scatenino polemiche, intorno a manufatti e installazioni che assumono la nuova funzione di accendere confronti e far parlare.
La nuova edizione di Luci d’Artista 2024 a Torino ospita quest’anno una nuova opera: “VR Man” dell’ateniese Andreas Angelidakis che illuminerà Piazza Vittorio Veneto da ottobre fino a gennaio e realizzata in occasione dei FISU World University Games Winter 2025; e, chissà se un caso che l’opera sia stata installata ad un dipresso dall’entrata della casa massonica cittadina,
E qui parte la polemica, unilateralmente orientata verso l’interpretazione magico satanica di cui Torino pare essere esausta. Basta diavoli, luciferi, Berlicche e demoni assortiti: Torino è anche la città della Gran Madre, del Corpus Domini, di don Bosco e, a dire il vero, anche un po’ di Iside, ma sorvoliamo. Proviamo ad astrarre, nel ludico tentativo reinterpretativo dell’oggetto artistico finalizzato a sondare le varie opzioni che l’artista voleva sottendere nella sua creazione.
In qualche modo potrebbe entrarci addirittura la storia celtica: se proprio vogliamo associare le corna sulla testa del misterioso individuo, potremmo identificarlo con Cernunnos, dio della caccia e della fertilità. Il periodo, tirandolo un po’ per la giacca, verrebbe anche a coincidere con la durata temporanea delle installazioni ovvero da ottobre al sei gennaio, dove Mabon si incrocia con Samhain. Si accende il sacro fuoco, guidando gli spiriti buoni nel mondo visibile, si attende che il seme germogli sotto la coltre nevosa e si festeggia l’equinozio d’autunno, nell’eterno ciclo che la terra e la natura concedono all’uomo e alle proprie attività.
Che l’artista in qualche modo abbia voluto concedere un tributo ai Celti è verosimile vista la località taurinense, ovvero gallico cisalpina, della sua installazione. D’altronde nel secondo secolo avanti Cristo grazie a Brenno che diede l’assalto a Delfi e ai tesori del suo oracolo, i connazionali di Angelidakis vennero sicuramente a contatto con i nostri antenati celto-galli. Forse la posizione dei neon antropomorfi non è esattamente corretta, dal momento che Cernunnos andrebbe rappresentato accovacciato in posizione di caccia (non di meditazione come sostengono altri), ma agli artisti si è soliti concedere le opportune licenze che, quando non volute, servono almeno a sorvolare su eventuali errori di rappresentazione.
Il periodo più buio dell’anno, d’altronde, aiuta a valorizzare opere che della luce fanno il loro metodo espressivo e il fatto che in detto periodo cada il Natale di nostro Signore, in realtà, è un fatto del tutto accessorio. Poi, le cosiddette luci d’artista si vanno man mano sempre più confondendo con l’illuminaria natalizia e, in fondo, la coesistenza dei due eventi gioca sicuramente e forse volutamente a confondere le idee del sabaudo nostrano doc.
Ecco allora che SE la discutibile morfologia antropomorfa dell’installazione ha volutamente strizzato l’occhio all’angelo decaduto, il barotto tutto d’un pezzo fa benissimo ad esternare rabbia e frustrazione.
Ma, si sa, mai chiedere ad un artista l’interpretazione della propria opera. Non avrebbe senso: annullerebbe quella visuale soggettiva che assegna all’arte o alla spazzatura l’oggetto del nostro osservare.
L’artista, è riconosciuto a livello internazionale ed è noto per giocare da sempre con immagini e simboli dell’antichità, rielaborandoli in un linguaggio contemporaneo, in questo caso, l’interpretazione l’ha data, riportata da Guida Torino, definendo la propria opera “una scultura luminosa ispirata alle icone classiche greche e romane, ma con una chiave moderna e sorprendente. La figura imponente e stilizzata, sormontata da un capitello ionico, ricorda le antiche cariatidi e richiama la potenza simbolica delle statue greche. VR Man non si limita a un omaggio estetico, ma suggerisce una riflessione sul ruolo dell’atletica come equilibrio tra corpo, mente e spirito; rappresenta un dialogo tra passato e presente, dove la cultura classica viene riletta attraverso uno sguardo innovativo.”
Quindi non corna, ma capitelli, non demoni, ma atleti, non provocazioni, ma un omaggio ai giochi olimpici invernali universitari di Torino 2025 che nel culturale vuoto divulgativo sugli eventi torinesi, abituale per la cittadina schiva e leggermente snob, abituata ad ospitare in silenzio e con timidezza, assurge a locandina, a manifesto eclatante di un evento che, occasionalmente, si va bene ad inserire nelle “luminarie di Natale”.
L’unico sospetto, legittimo se non altro, riguarda il dubbio sull’equivoco creato ad arte oppure no, su quel capitello che, dato in pasto alla capitale del diavolo, ha certamente ottenuto l’effetto sperato: scuotere, scandalizzare, far nascere un caso.
Del resto il dubbio è ciò che alimenta la conoscenza.
Alberto Busca