La Karakorum Highway ( KKH per gli amici) è la più alta via asfaltata del mondo che attraversi un confine internazionale. Segue uno dei molti tracciati dell’antica Via della Seta, è lunga 1200 km. e collega Kashgar, nella regione cinese dello Xinjiang con Havelian, nel distretto di Abbottabad in Pakistan. Inaugurata nel 1978, dopo 20 anni di lavori, attraversa quasi di netto la catena montuosa del Karakorum, superando a quota 4693 m. il Passo Khunjerab aperto dal 1° maggio al 15 ottobre.
A raccontare cos’è la Karakorum Highway è Anna Alberghina, medico, fotoreporter e instancabile viaggiatrice, in un incontro d’inizio giugno nella meravigliosa sede del MAO, il Museo d’Arte Orientale di Torino, in occasione della mostra Orienti con la collaborazione de Il Tucano Viaggi. Per GazzettaTorino ha condensato in un articolo un viaggio straordinario.
Durante la sua costruzione, ce lo ricordano le lapidi di cui è disseminata, persero la vita centinaia di operai pakistani e cinesi. Pomposamente chiamata “highway”, è ancora poco più che una statale a doppio senso di marcia. Percorrerla è un’avventura ed è proprio quello che ci si aspetta da una stretta camionabile che si snoda tortuosa ad altezze record.
Più che una via di collegamento, in realtà, è una vera e propria meta di viaggio. Consente di immergersi in un paesaggio unico al mondo fatto di ghiacciai scintillanti, laghi turchesi e strapiombi rocciosi. Non per niente viene considerata l’ottava meraviglia del mondo. Il primo progetto fu del 1959 quando la Cina di Mao e il neonato Pakistan cercavano una via per migliorare gli scambi commerciali tra Lahore e Pechino. L’unica possibilità fu rendere carrozzabile questa pista facendole rivivere i fasti delle antiche rotte carovaniere. Questa arteria, di grande importanza strategica e militare, mette così in comunicazione due universi opposti: la Cina comunista e il Pakistan fondamentalista.
La sua costruzione ha consentito un facile accesso a Gilgit e Skardu, nel Baltistan, i due principali centri per le spedizioni verso le vette del Karakorum. Cinque degli “8000”, infatti, si trovano in Pakistan. I più famosi sono il K2 , la seconda cima al mondo con i suoi 8611 m. e il Nanga Parbat ( 8125 m.). Dopo i fatti dell’11 settembre il turismo nell’area è drasticamente calato ma già da un paio d’anni si avvertono segni di ripresa. E’ di nuovo possibile ammirare in tutta serenità i colossi di granito incappucciati di neve.
Durante il percorso non mi abbandona mai la visione romantica delle carovane in cammino lungo la Via della Seta, quell’insieme di rotte commerciali che congiungeva l’Asia Orientale e, in particolare, la Cina al bacino del Mediterraneo, attraversando alcune fra le regioni più inospitali dell’Asia. Basta il nome per evocare emozioni straordinarie e far viaggiare l’immaginazione. A tratti ne intravedo le tracce scavate nella roccia ed immagino l’incedere dondolante dei cammelli battriani carichi di merci. Iniziata nel secondo secolo a.C. ai tempi della dinastia Han, sopravvisse fino al 15° secolo, 150 anni dopo Marco Polo, quando si aprirono le vie marittime. La Via della Seta condensa, in un’unica espressione, secoli di storia e di avvenimenti che hanno segnato il destino di popoli e culture.
Oggi, in mezzo al Karakorum, non si incontrano più i cammelli ma i coloratissimi camion pakistani. Carichi di sonagli e di vistose decorazioni, sono vere e proprie opere d’arte in movimento. I camionisti arrivano a spendere sino a 5000 dollari per trasformare i loro mezzi in quadri naif.
I decori hanno una funzione apotropaica, servono per chiedere prosperità ma anche per attirare i clienti. A chi volesse mettersi in viaggio consiglierei di partire dalla Cina. A Kashgar il tempo sembra essersi fermato all’epoca della Via della Seta ma non sarà così ancora per molto. Kashgar sorge a 1260 m. di quota, al centro del nulla più assoluto, ai margini di un terribile deserto, il Taklamakan, il cui nome significa “ se ci entri non uscirai mai”, proprio come nell’Inferno dantesco. Circondata dai massicci del Tien Shan a nord, dal Pamir a est e dal Karakorum a sud è l’ultima frontiera dell’impero, il “far west” cinese, nel vero senso della parola.
Siamo a 4000 km. da Pechino e l’orologio è indietro di due ore rispetto a quello della capitale che dovrebbe valere per tutta la nazione ma qui tutti sono guidati dal ritmo solare. Ogni domenica, quando la città è ancora immersa nel sonno, il vecchio mercato di Kashgar si anima di Uiguri, Tagiki, Kirghisi e di una moltitudine di cavalli, cammelli e pecore. Al ritmo traballante dei carretti trainati dai muli, nomadi e contadini convergono in questo delirio antropologico , puntuali al loro appuntamento settimanale ai confini del mondo.
Non a caso Kashgar significa “punto di incontro tra le genti”. La confusione è totale. Personaggi con lunghe barbe aguzze, cappelli ricamati e stivali neri contrattano animatamente. Sono gli Uiguri, la minoranza etnica di origine turca che popola questa provincia. Non mancano le bancarelle che vendono cibo, dal pane spruzzato con i semi di sesamo, agli spaghetti con carne di montone, al “girde nan”, la tipica focaccia uigura. Così rivivono le tradizioni , il folckolre e la cultura dello Xinjing in un disperato tentativo di resistere alla modernizzazione voluta dal governo cinese.
Il divario culturale, religioso, architettonico e perfino gastronomico non potrebbe essere maggiore. Superata Kashgar, ci si lascia ben presto alle spalle ogni clamore per entrare nel cuore della geografia centroasiatica fatto di montagne innevate e deserti di alta quota. Tappa obbligata è il lago Karakul, uno specchio di acqua verde e cristallina a 3700 m. di altitudine in cui si riflette la piramide del Muztagh Ata (7546 m.).
Intorno solo dune di sabbia bianca spettinate dal vento gelido del nord e greggi di pecore di razza karakul, quelle dal cui vello si ottiene la lana nera dei cappotti di Astrakan. Ultima città prima del confine, Tashkurgan è un posto di frontiera con un grande mercato che chiama a raccolta le popolazioni della zona. Qui, racconta Tolomeo, confluivano tre rami della Via della Seta. Il suo nome, “ città di pietra” è legato all’immensa fortificazione di epoca Yuan che sorge al suo limitare. E’ qui che hanno girato alcune scene del film “il cacciatore di aquiloni” ma a me ricorda piuttosto “il deserto dei Tartari”. Tutto intorno una distesa di verdi cangianti punteggiati di papaveri rossi. Superato il Passo Khunjerab eccoci finalmente in Pakistan. In pochi chilometri cambia davvero tutto, non soltanto le montagne, che si fanno ancor più spettacolari, ma soprattutto la gente. Qui, nella Valle dell’Hunza, vivono i Burusci.
La leggenda li vuole discendenti dall’armata di Alessandro Magno anche se l’evidenza genetica sostiene soltanto una componente balcanica per i Pashtun afghani. Certo è che hanno occhi verdi o azzurri e tratti somatici simili ai nostri. Sono famosi per la loro straordinaria longevità. Sembra che arrivino a 140 anni senza conoscere malattie degenerative grazie alla vita semplice, all’assenza di inquinamento, all’alimentazione ricca di albicocche e alla loro acqua alcalina.
In realtà il calcolo di età così avanzate sarebbe da attribuire piuttosto all’assenza di uffici anagrafici! Appartenenti alla corrente musulmana degli Ismaeliti e seguaci dell’Aga Khan, si distinguono radicalmente dai popoli limitrofi. A Karimabad, cittadella sulla Via della Seta, l’ultimo dei Mir feudali ha regnato sino al 1974, poi il vuoto. Qui, in questo remoto nord, fatto di valli aride, deserti di sabbia e sassi e magre coltivazioni strappate alla natura in una lotta di secoli, è avvenuto un miracolo.
La Fondazione Aga Khan ha dato vita nel 1982 al suo audace programma di sviluppo rurale. Shoaib Sultan Khan, Indiano di nascita e plurilaureato a Cambridge ne fu il primo ideatore. Villaggio dopo villaggio sono nate organizzazioni su base familiare che collaborano e investono per promuovere l’agricoltura e sono sorte scuole là dove il governo centrale non era mai arrivato.
Con la costruzione della Karakorum Highway insieme al progresso sono giunti anche burocrati, turisti e trafficanti. Possiamo solo augurarci che questi popoli sappiano resistere all’urto della modernità senza mandare in pezzi la loro cultura.
Foto e testo di Anna Alberghina
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