Messa per molti ma non per tutti?
L’Eucarestia nella fede cattolica è centro e culmine della vita della Chiesa. Il confinamento ha escluso questo bene per lunghe settimane, aggiungendo strazio a strazio laddove non si sono celebrati i funerali nella forma usuale. Con la ripresa riprenderanno prima o poi anche le celebrazioni, con norme stringenti rispetto alle distanze, la durata ed alcune questioni più tecniche.
La prima conseguenza è che le persone ammesse saranno una piccola parte: nella mia chiesetta non più di cinquanta rispetto alle abituali trecento e passa. Aumenteremo il numero delle celebrazioni, ma non basterà. Ci saranno lamentele e già si fanno battaglie sui principi, perché pochi vorranno cambiare abitudini, perché a molti sembra un’ingiustizia.
Non voglio entrare nelle questioni della libertà di culto, anche se la questione resta ed è reale. Vorrei contribuire invece alla comprensione di questo contingentamento numerico. C’è un principio alla base della liturgia cattolica che si chiama dell’actuosa partecipatio, partecipazione attiva: non significa che il giorno delle cresime a tutti i settanta ragazzini bisogna far fare qualche cosa portando all’altare la qualunque, dalle borse ai palloni, passando per mattoni e bibbie.
Come ho imparato da un saggio parroco, l’actuosa partecipatio non è che tutti fanno qualcosa, ma prima di tutto che alcuni fanno qualcosa per tutti. I fedeli presenti non fanno necessariamente e materialmente qualche cosa, ma esercitano tutti in modo virtuoso il proprio battesimo, l’essere innestati nel sacerdozio di tutto il popolo di Dio. Concretamente chi è a Messa è lì prima di tutto a nome di tutti: come il sommo sacerdote stava di fronte a Dio nel santo dei santi a Gerusalemme, come il popolo di Israele mediava la benedizione di Dio su tutti i popoli.
Actuosa partecipatio significa che quella porzione di popolo che è in quella chiesa, a rivivere in quel momento il memoriale della morte e risurrezione di Gesù, la vive a nome di tutti, di chiunque, soprattutto di chi non c’è. Ieri come domani come in questo complesso oggi, chi è a Messa non è prima di tutto lì per se stesso, per il proprio defunto, per la propria santificazione o, come dice qualcuno, purificazione. Siamo davanti a Dio per conto di tutti perché il corpo è uno solo, la barca di Pietro è una sola. Come la Vergine madre insieme a Giovanni, soli, stavano con alcune donne sotto la croce a nome di tutta l’umanità, anche e soprattutto quella che aveva tradito, quella che sbeffeggiava, quella che si compiaceva di quella morte ingiusta.
La Messa è il sacrificio di Gesù per tutti, ma nel senso più vero, ossia che a tutti arriva attraverso quei pochi che sono lì in quel momento. Il congedo al termine della celebrazione, l’Ite Missa est, pessimamente italianizzato con “la messa è finita”, dice l’esatto opposto della sua sacrilega traduzione: andate, quella là fuori è la Messa!
Come sarebbe bello se in tempo di transizione si potessero fare i turni: questa domenica ci sei tu, la prossima un altro, questa domenica sei lì per me, la prossima sarò io per te e tutti saremo lì per il malato, per l’anziano, per l’ateo, per la persona in ricerca, per il defunto e per il bambino.
In attesa di poterci essere davvero tutti, in attesa di potere nuovamente stare uno accanto all’altro, in attesa della Gerusalemme nuova. Temo che non accadrà e che le discussioni di oggi si trasferiranno chiesa per chiesa. Dopo duemila anni il peccato originale continuerà a lavorare i cuori, i puri guarderanno dall’alto in basso i poveri, ed i sani si penseranno santi.
Si accamperanno diritti in nome dei doveri, soprattutto in ragione di abitudini e comodità. Ma nel Vangelo la salvezza non è degli eletti, gli eletti sono mediatori di salvezza nell’unico vero mediatore che è Gesù. Chissà che lo Spirito Santo e l’apertura dei cuori generata dalla pandemia, invece non ci stupisca. La salvezza in fondo viene dalla croce, perché no?
don Luca Peyron