Bisogna volergli davvero un poco di male al pubblico. Al punto da voler male anche a se stessi, alla propria sede, alla città in cui si è inseriti e conosciuti. Volersi male è ad esempio fare delle cose raffazzonate, incoerenti, che sembrano quelle gare a bocce che prendono il simpatico nome di “a baraonda”. E per una gara di bocce in allegria è molto calzante.
Se invece si tratta di una mostra dedicata ad un grandissimo maestro surrealista , un artista di fama internazionale, le cose si fanno decisamente più complicate. Provate a scrivere sul campanello in uno squillante giallo Mirò, il catalano Jean Mirò, e a suonare saranno molti i curiosi che difficilmente ricordano la sua vastissima produzione e saranno lieti di rivederne alcune parti.
Il titolo scelto per chiamare ad una festa degli occhi grazie alla fantasia del genio spagnolo è: Mirò, Genius loci. L’alfabeto del segno e della materia. Non si può dire che non attragga, inoltre il luogo è nientedimeno che lo storico Palazzo Salmatoris di Cherasco.
L’attrazione viene smorzata dopo pochi minuti. In cima alla rampa di scale che porta alle sale espositive, un cartellone riporta in brevi tappe la vita del pittore, i luoghi e le date. Nulla di più.
La delusione più cocente, che si dipana per tutto il percorso sono le prime sale, le uniche che hanno piccole, povere e sparute opere di Mirò. Qualche carta, un paio di collages, incisioni, seguite da litografie, e stampe. I meravigliosi dipinti di grandi proporzioni, quelli che incantano, non ci sono. Peggio. No c’è nemmeno Mirò. Perché dalla terza sala in poi compaiono opere di altri pittori pressoché coevi. Insomma Mirò non è in casa.
E forse è un bene perché l’allestimento su fogli di grigio metallo mobili ricordano espositori di qualche fiera aziendale di componenti meccaniche ormai desueti, le informazioni sui quadri sono assenti, talvolta il formato delle litografie esce dal supporto sbucando di qualche centimetro ai lati, come camicie infilate male nei pantaloni. Il resto è un’accozzaglia di opere seppur pregevoli, che tagliano la possibilità di qualsiasi filo rosso capace di legarle insieme, oltre al periodo storico.
Di queste alcune sono mirabili. Un grande Vedova riesce a far sentire la sua potenza ma il suo canto si perde nell’indistinto. Tra un De Chirico di rara bellezza e qualche opera in prestito della Gam di Torino, lampeggia un gioco tra grigio e nero di Carla Accardi, in piccolo formato dei pregevoli disegni di Tinguely, un assemblaggio di Kounellis fatto di legno e piccole sculture in gesso, dei Turcato minori; tutto l’insieme porta a pensare ad una collezione privata in via di smembramento per una vendita o in attesa di un imminente passaggio in asta.
A voler male al pubblico si inserisce come ultimo baluardo degli anni ’60 la chiusura, anche durante i giorni di festa, per la pausa pranzo. Dalle 12 e 30 alle 14 e 30.
Nell’ultima sala a pianterreno un video d’epoca storicamente interessante viene bruscamente interrotto per condurre il pubblico fuori dal museo. Sta per scattare l’orario di chiusura e come in un film di Fantozzi arrivati allo sportello dopo la coda questo si chiude a ghigliottina. Deve essere la strategia dell’audience development che si applica qui. Un capolavoro di savoir-faire, non c’è che dire, a dodici euro a biglietto. Lo stesso importo di Palazzo Strozzi a Firenze, così per allungare un paragone.
A questi homines senza dignitate, che organizzano mostricciatole specchi per allodole utilizzando grandi nomi conosciuti per disconoscerne valore e grandezza, umiliando la memoria dell’artista, la poetica, colpevoli inoltre di non essere in grado di esporre un quadro, almeno un dipinto che racchiuda il mistero, la meraviglia e il viaggio che Mirò ha regalato all’umanità, non si dovrebbero consentire questi giochetti. Una sede espositiva seria, consapevole del suo valore, prima di prestarsi a queste infime operazioni dovrebbe fare qualche valutazione di merito e nel merito.
Per non farsi mancare nulla è stata prorogata fino al 19 febbraio.