Non li hanno più presi. Nemmeno per le corna. Partiti in cinque ora soltanto in tre, vagano introvabili per le campagne intorno a San Gillio e La Cassa o chissà dove.
Ricercati, hanno provato anche a far volare i droni per intercettarli, ma niente; spariti nel fitto della campagna. Tutt’uno con la natura che li ospita e protegge sono ritornati ad uno stato edenico e brado, giusto un passo fuori dall’antropocene.
Avevano imposto loro di calpestare la sabbia chiara di arene per le corride, di cercare il rosso che acceca, di scattare veloci e possenti per il colpo. Il destino ha pensato diversamente e offerto una via di scampo ad una storia già scritta.
I cinque tori che il 21 maggio sono riusciti a fuggire da un cascinale incarnano quasi una metafora di bucolico affrancamento, di emancipazione e riscatto. Potrebbe essere la cinematografia che si fa verità, la vita ad imitare l’arte, da Galline in fuga fino a Uno zoo in fuga, tra parodia e ispirazione libertaria.
La boscaglia come casa, la libertà come condizione e una saggia distanza dall’uomo ha permesso a questi grandi animali di riconquistare un tempo proprio. Simbolici fin dall’antichità, adesso a passeggio nel perimetro della città che li celebra con il proprio nome, rappresentano senza saperlo la squadra di calcio che li ha resi iconici quasi quanto Picasso mentre dava immagine al suo rapporto con la tauromachia.
Come si fa, onestamente, a non identificarsi con questi animali meravigliosi, si vorrebbe scappare, ritornare a quello stato di natura tanto invocato, essere loro. Per qualche mese almeno.
Esentati e immuni da ogni peccato avranno ritrovato il Regno, che fa accedere al Giardino del paradiso, “la beatitudine di questa vita” come scrisse Dante.
Allegoria dell’eterna lotta fra istinto e razionalità, tra vulnerabilità sacrificale e impeto distruttore, tra difesa e attacco, vita e morte questi tori, ora misteriosamente miti, ci sfuggono avvinandosi vieppiù a divenire leggendari come minotauri privi del labirinto di Cnosso.
Speranzosi che nessun Teseo venga ad ucciderli, forse ancora memori della periferia Attica dove vivevano liberi, nelle pianure vicine a Maratona, prima che la mitologia li trasformasse in personaggi di una storia, sarebbe saggio permettergli di rimanere tali.
A poca distanza da quella città, la cui sua popolazione antica era conosciuta con il nome, emblematico come un presagio, di Taurini.