Il piacere timbrico, tutto tedesco, di un’ensemble così coeso e corposo come quello che è previsto per il varo della nuova stagione dell’Unione Musicale di Torino è una rarità di indubbio prestigio. Il Conservatorio Giuseppe Verdi ospiterà infatti il concerto dell’Ottetto d’archi della Filarmonica di Berlino.
Vi si erano esibiti esattamente dieci anni fa, ora la storica formazione nata tra le file dell’Orchestra berlinese, fondata nel 1994, composta da quattro violini due viole e due violoncelli sono Daniel Stabrawa, Peter Brem, Andreas Neufeld, Christoph von der Nahmer violini, Martin von der Nahmer, Walter Küssner viola. Mathias Donderer, Christoph Igelbrink violoncello.
Acclamato dalla critica mondiale per la sua «tecnica straordinaria, l’entusiasmo del suonare assieme e il suono di intenso spessore armonico», l’Ottetto realizza la sintesi perfetta tra l’intimismo cameristico e la sonorità generosamente sinfonica dei gloriosi Berliner. Guidato da Daniel Stabrawa, primo violino di spalla anche dell’Orchestra, l’ensemble adatta la sua formazione a seconda delle esigenze di programma, suonando quindi anche in quartetto, sestetto e nonetto con l’aggiunta del contrabbasso.
Saranno due sestetti ad aprire il concerto di Torino, tutto dedicato al repertorio tedesco: si comincia con l’ouverture per sestetto d’archi di Capriccio, ultima opera teatrale di Richard Strauss (1942), un brano che ha conosciuto grande fortuna come pezzo strumentale autonomo.
A seguire il giovanile Sestetto in si bemolle maggiore op. 18 di Brahms, opera emblematica per la sua collocazione storico-estetica fra le categorie del Romanticismo musicale. Nato tra il 1859 e il 1860 ad Amburgo come prova di scrittura per soli archi, nonostante l’originale intenzione sperimentale ottenne fin da subito uno spontaneo successo presso i contemporanei per il suo spirito amabile e disteso e per la strumentazione raffinata, densa di colori sfumati.
Nella seconda parte l’ensemble si presenta al completo per eseguire l’Ottetto in mi bemolle maggiore op. 20, composto da Mendelssohn quando aveva appena sedici anni, brano che a buon diritto si può considerare come sua prima vera opera matura. Quello che colpisce di più è l’abilità nel maneggiare un organico così vasto, usato spesso a otto parti reali, un intreccio in cui ogni strumento suona una parte diversa e indipendente. È un prodigio di esuberanza giovanile che si guadagnò il plauso entusiasta di Schumann e rimase sempre tra i lavori preferiti dal suo autore.
Pier Sorel