Venerdì 27 settembre u.s., nel quartiere di Mirafiori un tempo occupato dagli stabilimenti Fiat, è stata dedicata una via ad Helen König, la creatrice delle bambole e delle ceramiche Lenci che diede impulso ad un vero e proprio fenomeno di costume ad iniziare dagli anni Venti del Novecento, focalizzando sulla nostra città l’attenzione e l’ammirazione di tutto il mondo.
Onorificenza meritatissima, per la geniale torinese di origini tedesche che dai primi esperimenti casalinghi riuscì a creare un’azienda con seicento dipendenti, pregiandosi poi, negli anni di maggior gloria, della collaborazione dei più noti artisti del tempo; un’onorificenza, peraltro, non così scontata in una città come Torino, tradizionalmente avara di riconoscimenti verso i suoi figli migliori, e soprattutto verso le sue figlie migliori.
Se di Helen König la memoria è, e resterà sempre, viva, grazie alle sue creazioni, oggetti di culto esposti nei musei di tutto il mondo e contesi da migliaia di collezionisti, non altrettanto nota è la storia singolare della sua famiglia, dei suoi vagabondaggi giovanili in tutta l’Europa, delle sue esperienze circensi nel caravanserraglio della ‘principessa’ Nouma Hawa del dolore straziante per la scomparsa prematura della figlioletta tanto attesa che la condusse a creare i primi fantocci di panno.
Di questa donna straordinaria e di altre sette ‘sorelle’ geniali racconta Marina Rota nel suo ultimo libro, basato su una documentazione bibliografica decisamente eccezionale: ‘Certe donne, a Torino- Incontri ravvicinati con figure straordinarie, edito da Buendia Books con nota di Margherita Oggero, illustrato dalle raffinate opere di Renata Arnaldi.
Che non si tratti di semplici biografie risulta già evidente dalla tavola di Andrea Maino, in cui l’autrice viene rappresentata a bordo del velivolo di Gabriele D’Annunzio per incontrare le otto protagoniste del libro in un viaggio a ritroso nel tempo.
Marina Rota crea infatti, in ogni capitolo, un escamotage per piombare nell’epoca dell’eroina di turno, facendole raccontare la sua storia per evidenziare ogni aspetto della sua personalità e del suo genio, e concedendole così la chance di una seconda vita. L’autrice non parla ‘di’ loro, ma ‘con’ loro: il transfert è profondo; l’immedesimazione, totale.
Non si tratta tuttavia solo di interviste impossibili; a volte è una lettera, a volte uno spettacolo, una conferenza stampa, un’apparizione nel roseto della Tesoriera o un incontro in una modisteria di via Po a creare un ponte fra il presente e il passato, a ricreare le suggestioni di un’epoca, a rendere nella sua vivezza il talento del personaggio. Sono donne, quelle di questo libro, accomunate dall’audacia e dalla ferma determinazione dei loro progetti, perseguiti nonostante i pregiudizi sociali e i pesanti condizionamenti dell’ epoca; e questo senza mai perdere, se ancora si può utilizzare il termine, nemmeno un briciolo di femminilità.
Basti pensare, a questo proposito, ad una Amalia Guglielminetti che si impose giovanissima sulla scena letteraria e fu esaltata dai più severi recensori in un’epoca in cui si pensava che ‘le donne non sapessero scrivere’ e i giovani letterati facevano muro contro ‘il gaietto sciame femminile’ o ad una Paola Lombroso, primogenita intelligente e ribelle del grande criminologo Cesare, che, a dispetto della teoria positivista in cui crebbe, basata sulla convinzione di un’inferiorità biologica della donna, divenne la brillante giornalista che creò Il Corriere dei Piccoli– salvo poi essere estromessa dalla direzione della rivista e relegata alla rubrica della posta con i piccoli lettori con lo pseudonimo di Zia Mariù.
Anche la grande danzatrice Bella Hutter, esule russa accolta nella cerchia di Riccardo Gualino non ebbe vita facile nel proporre la sua rivoluzionaria idea di danza ispirata ad Isadora Duncan: le famiglie borghesi sabaude si rifiutarono, sulle prime, di mandare le figliole ad una scuola in erano aboliti i tutù e le scarpette a punta e si danzava con corte tunichette e a piedi nudi, per esaltare la naturalezza dell’espressione corporea.
Le vie e le targhe, si diceva. Una via dedicata ad Amalia Guglielminetti esiste, nel quartiere Santa Rita- benché vi sia riportata una data di nascita clamorosamente errata (1885 anziché 1881…); e, dopo estenuanti procedure, l’associazione Amici del Teatro Regio è riuscita a far apporre una targa sulla casa natale di Teresina Tua, “l’Angelo del violino”, in via San Massimo 11, e quindi, più recentemente, nel roseto della Tesoriera.
Anche a Lidia Poët , alla quale per cinquant’anni, in omaggio ai più biechi pregiudizi sull’”imbecillitas sexus” delle donne, fu impedita l’’iscrizione all’ordine degli avvocati e il diritto all’esercizio della professione legale, è stata dedicata una targa, benché nell’area giochi antistante il Tribunale di Torino e non all’interno del Tribunale stesso, luogo che è stato negato “alla prima avvocata d’Italia’, a quanto pare, anche dopo la morte. Altre figure non solo non vengono ricordate in nessun angolo della città, ma sono state completamente cancellate dalla memoria collettiva, come la piccola attrice prodigio Gemma Cuniberti, denominata “la piccola Ristori”, che pure fece impazzire tutta l’Italia per il suo prodigioso talento, tant’è che perfino Italo Svevo, in quel di Trieste, venne folgorato dalla sua bravura, e per lei scrissero copioni teatrali i più prestigiosi drammaturghi dell’epoca.
Al di là delle targhe e degli stradari, però, anche i libri restano. E il libro di Marina Rota ha reso alto onore a queste figure eccellenti: diffondendo la loro più approfondita e rigorosa conoscenza ha ridonato la luce che rivendicavano e la collocazione storica alla quale hanno diritto.
La scrittrice Marina Rota a GazzettaTorino ha rilasciato una dichiarazione su questo libro che riportiamo per esteso:
‘Dopo un anno di ricerche, ho volato con la fantasia per incontrare queste mie otto sorelle nella loro epoca; quella in cui avrei voluto vivere anch’io, vittima come sono della ‘sindrome dell’età dell’oro’. È stata un’avventura complessa, ma anche così affascinante che solo a malincuore ho dovuto lasciarle per tornare nella mia realtà”.
Pier Sorel