Basic Instinct.
Strano a dirsi, il pendolarismo parrebbe essere un comportamento
profondamente radicato negli esseri umani…
Il fisico toscano Cesare Marchetti è uno studioso forse più onorato all’estero che in Italia. È noto per molte cose, ma oggi il suo nome ricorre particolarmente per il “Marchetti Constant”, l’osservazione che per gli esseri umani, ancora legati “alla caverna” della preistoria, sia un istinto basilare non allontanarsi per il lavoro quotidiano molto più di mezz’ora da casa—un’ora tra andata e ritorno.
Il Constant varrebbe indipendentemente dal mezzo di trasporto utilizzato: a piedi, a cavallo, in auto, in tram o treno pendolari. Ovviamente, molte persone—per necessità—superano il limite, ma è un fatto di patologia urbanistica. Marchetti ha dimostrato che, dai primordi, la massa della gente si comporta comunque secondo la regola. Così, fino a tutto il Medioevo, quando il “pendolarismo” era a piedi, i “grandi” centri non superavano un diametro di circa cinque km, mezz’ora di marcia dalla periferia al centro per i più.
La dimensione massima urbana è dunque una funzione della velocità dei mezzi di trasporto più comuni. Così, i più importanti centri—molto densamente popolati—cominciano ad allargarsi geograficamente solo con l’introduzione dei primi, rudimentali, mezzi di trasporto di massa. I tram a cavallo, gli autobus, le metro sotterranee, i treni pendolari e le auto ne hanno aumentato la possibile estensione territoriale. Ma anche la più recente di queste tecnologie, l’autostrada, ha raggiunto il limite all’interno del centro urbano.
“Non ci sono nuove strade in città”
Ogni miglioramento viene “ingoiato” dal conseguente aumento del volume di traffico. Marchetti scriveva negli anni Novanta, quando sembrava ancora possibile che i Governi potessero compiere davvero rivoluzionari progetti pubblici. Immaginava che tecnologie allora emergenti, come gli iperveloci treni Maglev in gallerie sottovuoto, avrebbero potuto allargare l’orizzonte geografico urbano al punto di permettere un pendolarismo comune quotidiano per esempio, tra Casablanca e Parigi, legando agglomerati distanti in singole unità funzionali.
Con rare eccezioni, non è successo niente del genere. Si sono create le megalopoli, ma con rattoppi più che zoppicanti. Esistono unitariamente sulla carta, ma nei fatti sono solo enormi grumi di singole comunità non più interconnesse. Los Angeles è una macchia unificata sulla mappa, ma da una parte c’è Beverly Hills e dall’altra Skid Row. Non sono “quartieri”, sono universi autonomi, l’uno ricco e agiato, l’altro una triste imitazione del peggio Terzo Mondo.
Le megalopoli non sono città, sono nazioni, che sempre più esistono in autonomia negli stati che le ospitano. Hanno interessi contrapposti rispetto ai territori circostanti. Così, Londra è in guerra civile con l’Inghilterra per la Brexit, Parigi con la Francia dei gilet jeaunes della provincia per le tasse sul carburante, le due coste urbanizzate degli Usa lottano con il vasto centro del Paese per Donald Trump.
Non c’è auto a guida autonoma che tenga. In città almeno, non c’è più dove costruire nuove strade. A Manhattan si naviga bene con una mappa di cinquant’anni fa perché, a parte qualche strada di scorrimento appiccicata ai bordi, non è cambiata la dispersione geografica—solo l’altezza dei palazzi, sempre negli stessi spazi. Si sperava nel telelavoro da casa, ma i suoi limiti sono ormai noti. Qui ci vorrebbe che qualcuno inventasse—in fretta—il teletrasporto istantaneo Star Trek. Lavoro a Milano, ceno a Rio, dormo sulle spalle dell’Himalaya…
Courtesy James Douglas Hansen