Molti anni fa Torino, la città dove sono nata e cresciuta, la mia città, mi “andava stretta”. Era molto prima delle Olimpiadi invernali, prima della metropolitana, prima che fosse chiusa la fabbrica del Lingotto, prima anche che il quadrilatero diventasse il simbolo della “movida” subalpina. Questo “andarmi stretta” significava in realtà che nella città vedevo moltissime cose buone e belle ma non mi pareva che nessuno che percepisse come tali o nulla venisse fatto per aiutare una percezione positiva. Per esempio la Galleria d’Arte Moderna aveva opere meravigliose e aveva prodotto e realizzato, negli anni Sessanta, mostre straordinarie. Ebbene, con mio grande malessere, era chiusa e lo sarebbe stata per ben tredici anni.
Se si facevano delle cose nuove, la gente mugugnava, come quando fu pedonalizzata via Garibaldi. Oggi non si potrebbe pensare più a una via Garibaldi con le auto e pure i tram, sarebbe una tragedia…
Quando la grande Fabbrica, il Lingotto, iniziò a essere convertita in un grande centro congressi firmato da uno dei più grandi architetti dei nostri tempi, che non è torinese ma genovese e pazienza, la gente storceva il naso e diceva che era un grande scandalo. Nel migliore dei casi che sarebbe stato un grande flop.
Ho fotto solo tre esempi perché non ho voglia di elencare tutte le cose che mi facevano “andare stretta” Torino. So che se si fosse dato ascolto a quelli che lamentavano sempre, non si sarebbe amai andati avanti, non si sarebbe fatte nemmeno le Olimpiadi, nemmeno i World Master Games nell’estate 2013 che per certi aspetti sono state persino più emozionanti delle Olimpiadi, perché gli atleti erano gente come noi, anzi eravamo proprio noi… E qui voglio anche dire che il responsabile per i mancati Mater Games invernali del 2015 sia sottoposto per contrappasso a un ciclo forzato di apprendimento di sport sulla neve!
Tornando alla Torino di quegli anni, la lezione è che non bisogna dare retta alla gente che si lamenta. Si lamenta in estate perché fa caldo, si lamenta in inverno perché fa freddo.
Nell’estate del 1990 ero sola e mi ero fatta male a un ginocchio. L’ortopedico mi aveva prescritto molta cyclette. Io ero inorridita al pensiero di pedalare per non andare da nessuna parte. Allora mi aveva suggerito di usare la bicicletta per gli spostamenti quotidiani. “Come fanno a Berlino – mi aveva detto – estate e inverno”.
“Berlino?” avevo pensato io, ma non c’è il muro? No, il muro non c’era più, l’anno prima lo avevano fatto a pezzi.
Un po’ di tedesco lo sapevo, lo avevo imparato da sola con gli audiodischi 45 giri di Linguaphone. Speravo che quello che sapevo mi bastasse giusto per la sopravvivenza in una terra lontana, ignota e senza nemmeno il muro.
Così entrai in una agenzia di viaggi e chiesi un biglietto aereo per Berlino (allora si faceva così, non c’era internet per comperarsi i viaggi da soli). Andata e ritorno, per carità: viaggiare è bello, ma “esageruma nen”, sono pur sempre una torinese.
La gentile commessa mi chiese se volevo anche un albergo. Dissi di no, grazie, che sapevo dove andare. Mi guardò stupita e infatti non era vero, ma almeno un poco di avventura bisognava che me la concedessi.
Il giorno della partenza ero carica come una sveglia (si diceva così perché allora le sveglie non erano elettroniche a cristalli liquidi bensì a carica manuale con una chiavetta con la molla) e mi ritornava in mente “I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno a Berlino”, così si intitolava un bizzarro e fin troppo geniale film di un tale Vincenzo Badolisani, visto in uno di quegli ancor più bui anni ’80, poi subito sparito dalle scene e mai più ricomparso. Mi pareva una premonizione fatale: quello stesso disagio, quella stessa insofferenza…
continua
Paola Assom