Per un felice cortocircuito tra contenuto e contenitore, Society, you’re a crazy breed, inedito progetto espositivo di Botto&Bruno, coppia di artisti torinesi da sempre impegnati a raccontare la periferia e le sue trasformazioni, è ospitata sino al 19 giugno presso gli spazi della la Fondazione Merz, esempio virtuoso di riqualificazione postindustriale (l’edificio che la ospita era l’ex centrale termica Officine Lancia) in un quartiere – Borgo San Paolo – al centro, negli ultimi anni, di un ampio programma di riconversione urbanistica.
A partire dal titolo, citazione del brano Society di Eddie Vedder e colonna sonora del film Into the wild, una sorta di grido per riflettere sul futuro delle nostre città, Botto&Bruno concepiscono la mostra come un’unica grande installazione che si relaziona al luogo che la ospita e in particolare si sofferma sul valore simbolico che esso rappresenta, nella sua trasformazione da edificio industriale dismesso a centro di cultura. Entrando nella spazio espositivo si è avvolti da un paesaggio fotografico che ricopre quasi per intero le pareti perimetrali e ne invade persino la pavimentazione, un fitto intreccio di immagini raccolte dagli artisti negli anni e sovrapposte sino a creare scenari di margini urbani uguali e diversi, in tante parti del mondo.
Come dal loro stesso raccontato, Botto&Bruno raccolgono da sempre con il mezzo fotografico immagini di zone industriali dismesse nel momento del loro abbandono, (che loro chiamano “zone temporaneamente autonome”) prima che siano cancellate da nuove costruzioni. Come “orafi dell’immagine” le fotografie vengono elaborate, ritagliate, sovrapposte a disegni, cesellate con il cutter sino a creare scenari irreali ma verosimili, dove tutto è a fuoco e i colori sono calibrati attentamente in un equilibrio formale di grande rigore, prossimo alla dimensione pittorica. Tutto il materiale raccolto (in mostra alcuni dei loro preziosi e intimi quaderni che ci raccontano questo processo creativo) viene da loro archiviato e utilizzato nel tempo, divenendo per loro un personale e terapeutico percorso emotivo di memoria urbana.
All’interno dello scenario scelto per gli spazi della Fondazione gli artisti individuano alcune pause, luoghi di riflessione: un silos, un muro e un cinema concepiti come “ristori dell’anima”. Il silos, simile per forma e dimensioni alle cisterne di raffreddamento termico che occupavano lo spazio esterno delle Officine Lancia, è un luogo in cui la distruzione dell’uomo è contenuta da una natura ipertrofica che si rimpossessa delle rovine, un luogo dell’immaginazione onirico, che riporta all’antico rapporto con la terra e con la natura. Segue un secondo elemento dalle forte connotazione simbolica, che rimanda a certe suggestioni dei film di Antonioni: una porzione di muro aggettante da cui escono frammenti di carta, parole e frasi che si disperdono sulle pareti; sono i messaggi, i sogni, le istanze che trapelano sui muri di ogni dove. Proseguendo nel percorso ci si avvicina ad una terza struttura: una piccola sala cinematografica denominata Cinema Lancia, ricostruita sul disegno della facciata dell’ex edificio industriale e ora sede del museo, diventa un altro luogo dove l’immaginazione ha la possibilità di relazionarsi con il pubblico. All’interno è proiettato in loop l’ultimo e inedito video degli artisti Kids world, con musiche da loro composte in collaborazione con Bartolomeo Migliore. Il video è realizzato con la tecnica del cut-up con spezzoni tratti dai 400 colpi di Truffaut del 1959, da Kes di Ken Loach del 1969, e dal corto di Kerostami il pane e il vicolo del 1970. In esso tre momenti raccontano l’innocenza e lo stupore dei bambini visti nell’evolversi dall’infanzia alla preadolescenza, evocando paure, sorpresa, ma anche il rapporto diretto, senza filtri, con la natura.
L’installazione Cinema Lancia è forse quella più struggente, perché richiama nel visitatore non più giovanissimo l’immagine del cinema di periferia, quelle sale di seconda visione frequentatissime nelle domeniche anni ‘80, abitudini che sembrano oggi lontane ma che fanno parte del nostro costume e della nostra storia recente, e che a loro modo costituivano importanti e rari momenti di aggregazione culturale del “periferiato”.
Ed è forse questa chiave poetica l’indicazione che gli artisti, nati e vissuti nei quartieri di una società operaia costantemente alla ricerca di una nuova identità, consegnano al visitatore, facendosi cantori di questa nostra realtà raccontata con lucido e duro realismo, dove la poesia dell’immagine pazientemente “ricostruita” diventa la chiave per ritrovare un equilibrato e un rispettoso rapporto con i luoghi in cui viviamo.
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