Preparando un esame di storia della critica d’arte dedicato alla semiologia dell’immagine e alla fotografia come linguaggio e opera, mi imbattei in differenti testi formativi utili a porre le basi per la mia solida passione culturale per la fotografia, che si trasformò negli anni nel pane quotidiano. In tale occasione mi imbattei in una asserzione di Roland Barthes posta in apertura del suo volume La Chambre Claire; tale affermazione modificò e condizionò la consapevolezza del mio guardare e leggere l’immagine fotografica.
Barthes, guardando un ritratto fotografico di Girolamo Bonaparte, l’ultimo fratello di Napoleone, si disse: “Sto guardando gli occhi che hanno visto l’imperatore “.
Il semiologo ci narra anche che non riusciva a condividere tale stupore con altri, o trovare chi potesse comprendere questo suo sguardo al fotografico e che quanto accaduto, lo condusse al suo interesse “culturale” per la fotografia.
Ebbene, io non solo condivisi lo stupore, lo ringraziai intimamente per aver espresso con chiarezza un sentimento che non ero mai riuscita a portare a galla ma che mi accompagnava al cospetto delle immagini fotografiche, in aggiunta guardando le fotografie io venivo colta anche da pensieri del tipo: “Ecco! in quella strada ha passeggiato Baudelaire” oppure “Questa insegna dello studio di Nadar è stata vista da Sarah Bernard” o simili.
In Italia erano anni nei quali l’attenzione sulla fotografia, sulla sua storia, sul linguaggio fotografico quale medium culturale, non trovavano lo stesso riscontro e attenzione di oggi.
Nei ben cinque lustri trascorsi molte sono state le mostre, le pubblicazioni, i convegni dedicati alla materia e nel nostro paese nel 1998 la fotografia è diventata anche bene culturale.
Gli incontri per la proiezione delle diapositive delle vacanze sono stati sostituiti da visioni a monitor, lo scatto su pellicola ha lasciato il passo alla ripresa digitale, le macchine fotografiche sono state soppiantate dagli smartphone.
Non parliamo di 25 anni ma di un era, di una rivoluzione culturale: possiamo produrre e guardare le fotografie senza trasformarle in materia dell’immagine. Assetto merceologico, acchito psicologico, tempismo nella veicolazione delle immagini e molti altri aspetti ancora si potrebbero citare. Non entriamo nel merito dei social network e dell’utilizzo dell’immagine fotografica in tale ambito.
Possiamo sostenere che la fotografia sia il linguaggio oggi maggiormente utilizzato ai fini della comunicazione non verbale. Possiamo anche asserire che sebbene con differenti destinazione d’uso la fotografia sia trasversale ai differenti ceti sociali. E’ anche corretto affermare, esulando il discorso legato al linguaggio e al mercato musicale, che la fotografia oggi sia una delle più accessibili forme d’espressione, esponenzialmente in crescita dalla nascita del digitale.
Con questa premessa si può ben comprendere come abbia trovato una fetta di mercato, magari di nicchia, la serie di documentari proposta dalla TV Laeffe, Storia della fotografia, promossa attraverso il mantra dei messaggi promozionali: In un mondo in cui la fotografia è alla portata di tutti, che cosa rende davvero unico uno scatto?
Del 2007, dal titolo originario Genius of photography, le puntate sono state prodotte per la BBC dalla Wall to Wall di Tim Kirby. Trasmesse da Laeffe in 6 puntate, replicate in differenti fasce d’orario, gli appuntamenti indagavano sul perché alcune fotografie siano diventate l’espressione di un’epoca e ricercavano il limine fra l’opera autoriale e la produzione vernacolare quotidianamente prodotta.
Amici, parenti, conoscenti e professionisti mi hanno chiesto in differenti occasioni un parere sulla trasmissione, sollecitati dalla novità di una proposta che essendo televisiva necessariamente doveva trovare risposte negli indici di ascolto e di conseguenza rispondere all’incontro fra offerta e domanda; infine quale era l’attendibilità dei filmati messi in onda? Quale il taglio di questi appuntamenti settimanali sulla storia della fotografia?
Il riproporsi insistente della richiesta mi ha infine indotto ad un lavoro di riflessione e ad un’attenzione (atta a illuminare principalmente me stessa) sulla valenza da me attribuita alla serie di documentari visti, da cui questo breve testo che inizia con i miei ricordi di studentessa a fine anni ’80 del XX secolo.
Ogni puntata corrispondeva a un documentario della durata di un’ora, la prima affrontava il tema dei protofotografi, i pioneri del bianco e nero dal dagherrotipo alla fotografia su carta: da Louis-Jacques-Mandé Daguerre a Henry Fox Talbot, passando per Félix Nadar e il fenomeno della carte de visite di André- Adolphe-Eugène Disdéri.
La serie procedendo per appuntamenti settimanali ha compiuto un percorso che andava dal dagherrotipo al digitale, affrontando il tema della ritrattistica fotografica, del giornalismo attraverso l’opera dei fotoreporter (con grande spazio dedicato alla Magnum), dell’arte fotografica connessa al medium pubblicitario, dedicandosi prevalentemente al Regno Unito, agli USA, alla Francia, lambendo Cina, Giappone e Africa, ignorando completamente Italia e paesi del mediterraneo. Fra i fotografi presentati nella serie oltre ai citati pioneri: Alexander Rodchenko, August Sander, Man Ray, Eugene Atget, Jacques Henry Lartigue, Walker
Evans e Bill Brandt, Robert Capa, Tony Vaccaro, Eugene Smith, Joel Meyerowitz. Molto ben condotte erano le interviste con alcuni dei grandi fotografi tra i quali Nan Goldin, William Klein, Martin Parr, Sally Mann, Robert Adams, Jeff Wall, Gregory Crewdson e molti altri.
Per quanto riguarda questa Storia della fotografia, storia non era, mentre era coerente il citato titolo adottato dalla BBC: Genius of photography, il taglio impresso all’evoluzione e alla storia sociale della fotografia si potrebbe definire sommaria e lacunosa. Pregio della produzione era sicuramente la qualità dei documenti iconografici proposti, la ripresa e l’illuminazione che ne illustravano e comunicavano in maniera impeccabile gli originali. La serie si può definire un piacevole passatempo, utile ad avvicinare al linguaggio della fotografia i neofiti, corredata di aneddotica, immagini e informazioni atte a renderla attraente anche ai conoscitori e agli addetti ai lavori.
Pensando alla realtà del nostro bel paese mi sono chiesta: “ma in questa storia della fotografia, costruita attraverso l’opera dei grandi maestri internazionali i nostri autori dove sono?“. Sicuramente i grandi fotografi non ci mancano, Mulas, Ghirri, Gioli, Basilico, Jodice per citarne alcuni a caso fra i più noti. Sicuramente siamo bravi ad oscurarci, mentre non lo siamo a comunicarci e a sostenerci; dovremmo rifletterci sopra perché un settore florido e apprezzato ha ricadute anche sull’economia, mentre nulla facciamo per le collezioni dei nostri grandi e piccoli autori, che potrebbero portare ricadute economiche per chi le studia, tutela, cura e valorizza: noi facciamo le code per vedere le ristampe, non i vintage, dei grandi maestri francesi e americani, acquistiamo all’estero delle mostre, sostanzialmente dei prodotti più commerciali che culturali.
Sollecitata dalla stesura di queste riflessioni, nelle mie ricerche ho scoperto che l’interesse rivolto alla fotografia era reale ed era testimoniato dalla messa in onda di un’altra serie televisiva su RAI 5: Close Up – Photographers at Work, con la regia di Rebecca Dreyfus, omaggio ad alcuni dei fotografi contemporanei più famosi come Albert Maysles, Timothy Greenfield-Sanders, Sylvia Plachy e Alan Moore. Personalmente ho visto la puntata dedicata a Timothy Greenfield-Sanders, famoso per i suoi ritratti di celebrità in grande formato e la seconda parte di una che illustrava il modus operandi di Gregory Crewdson (fotografo per altro esposto in questi giorni a Torino fino ad aprile, presso la Galleria In Arco di Sergio Bertaccini). In questi 2 filmati su RAI 5 i fotografi sono raccontati come dei divi, e noi spettatori bulimicamente ci nutriamo delle loro immagini e delle loro storie. Tutto è glamour, fare il fotografo è la professione più affascinante della contemporaneità, è semplice, redditizio, soddisfacente, porta gloria e fama. Nella realtà le cose sono molto differenti, anche se suppongo che questo messaggio sia oramai sdoganato, e spiegherebbe il moltiplicarsi degli autori e delle proposte di letture portfolio, concorsi fotografici, che molto raramente restituiscono onori e visibilità ai partecipanti ma molto spesso sono una risposta alla collocazione professionale degli esperti delle giurie.
Quando mi preparavo a sostenere il citato esame di critica d’arte i divi non erano i fotografi, lo erano i cantanti, gli attori; forse i miei compagni di corso conoscevano la fotografia di Henry Cartier Bresson che ritrae lo scultore Alberto Giacometti mentre attraversa la strada sotto la pioggia parigina (fra le altre cose la si può ammirare fino al 9 giugno del 2014 a Parigi, al Centre Pompidou), oppure gli scatti di Man Ray a Alice Prin alias Kiki de Montparnasse, o i suoi rayogrammi, immagini note in quanto fonte iconografica a sostegno dei loro studi di storia dell’arte. Ma da allora è passata molta acqua sotto i ponti…
Daniela Giordi
Daniela Giordi è restauratrice, esperta in tecniche e materiali della fotografia e curatrice di progetti espositivi per la fotografia storica e contemporanea.
È la responsabile di ABF-Atelier per i Beni Fotografici di Torino.