Un concetto che ci riguarda da vicino e che non sempre è facile esprimere nella sua complessità è la “gentrificazione”. A portare chiarezza e divertimento addentrandosi in questo fenomeno di “distopia illuminata” è il Professore di Sociologia Giovanni Semi dell’Università di Torino con il “Breve manuale per una gentrificazione carina” edito per i tipi di Mimesis. Centoeotto pagine dedite al disvelamento di un’utopia contemporanea dove alle luci di riqualificazione fanno da contraltare lunghissime ombre scure.
Gentile professor Semi il suo Breve Manuale ci porta là dove la gentrificazione definisce la sue modalità operative. Più di ogni cosa però sembra riproporre una versione aggiornata della favola di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”, dove il re sono i nostri quartieri acciaccati e fin troppo spesso mal rammendati e gli imbroglioni i fautori di un gigantesco telo tutto smart, green, inclusive e via dicendo che dovrebbero riportarli alla bellezza.
Come siamo finiti in questa specie di favola?
Sostanzialmente ci vedo una ragione globale e strutturale e una, invece, più nazionale e contestuale. Sul piano globale, è innegabile che il capitalismo abbia preso una direzione molto particolare verso la fine del Novecento: gli investimenti in attività immobiliari e finanziarie hanno progressivamente sostituito quelli produttivi, quantomeno nei paesi Occidentali. Lo spazio urbano, a partire dalle case e dai quartieri, è diventato dunque il luogo privilegiato per disinvestimenti e investimenti, per abbandoni e speculazioni. Se poi passiamo dal Mondo all’Italia, lo smantellamento del settore industriale è stato davvero spettacolare e a molte famiglie italiane, private di redditi da lavoro adeguati, è stato sostanzialmente detto “usa gli immobili di famiglia”….e….”se non li hai, comprali!”. Questo massiccio spostamento verso l’immobiliare, garantito da strumenti finanziari innovativi e molto rischiosi, ha però avuto bisogno di una narrazione che sostituisse quella precedente, che si basava sul merito, sul mito del “duro lavoro” e sulla piena occupazione. Ora il nostro mondo si costruisce attorno a questioni di vivibilità e sostenibilità, di qualità della vita ed estetica, perché in fondo così possiamo non pensare all’etica e alle condizioni materiali di vita.
Lei evidenzia con gustosa ironia e un pizzico di disperazione la neolingua politico/ amministrativa, che per di più istruisce una semantica totalmente de-significata destinata ai bandi delle fondazioni bancarie, riportando esempi concreti. Quanto è grave il sottomettersi ad una logica di voluta incomprensibilità linguistica ?
Che il linguaggio sia sempre stato usato dalle classi superiori per offuscare, occultare e trasfigurare le proprie scelte e decisioni, è cosa nota. In questo senso, linguaggio neutrale e accessibile a tutti e tutte non si è mai visto. Quando poi scendiamo nel tecnico o nel politico, il linguaggio diventa ancora più oscuro. La cosa interessante del tipo di neolingua che prendo in giro col mio libro, è che si vuole “naturale” e universale, quanto e tanto più è sostanzialmente vuota. Prendiamo gli infiniti anglismi di cui ogni bando pubblico e semi-pubblico è letteralmente infarcito: smart, green, engagement, innovation, awareness, sharing, partnership, call, hub. Ne potrei elencare altri cento. Cosa ci dicono? Si tratta di strizzatine d’occhi tra persone che si dicono sostanzialmente cose vuote ma tra di loro, di modo che chi deve capire che per vincere quel bando deve riproporre la cena degli avanzi in un certo modo, lo capisce. E gli altri si arrangino. Così facendo però si compie un duplice delitto: intanto, si uccide la lingua italiana e con essa una certa logica di pensiero di cui è portatrice, e poi si continua ad occultare ciò che non può essere svelato, e cioè che la funzione di questa neolingua è precisamente quella di indorare la pillola di una politica sempre più svuotata di potere e di idee, di progetti e di direzione.
Viviamo immersi in un continuum mediatico fatto di inattaccabili buone notizie fino a quando non esce che il “re è nudo”, la resilienza urbana non offre storie di riscatto, i problemi restano tali o aumentano, incontri e convegni si spengono in riqualificazioni raccontate e mai avvenute. Perché è così difficile ammettere i dati di realtà?
Mi sembra ci sia un dato antropologico importante da segnalare: nel mondo che abitiamo ora, l’idea stessa di spaesamento, di scoperta, di rivelazione è inaccettabile. In questo senso, la realtà dei fatti è spiazzante, conturbante. Per fare un esempio pratico: il turismo, che è una delle principali voci dell’economia di ogni paese di questo pianeta, svolge esattamente la funzione di “macchina di prevenzione dello shock culturale”, come disse efficacemente un antropologo un paio di decenni fa. Noi andiamo in luoghi che ci devono sedurre, non spiazzare e men che mai spaventare. La nostra esperienza del pianeta deve essere liscia, non corrugata. Da questo punto di vista, il compito delle scienze sociali è particolarmente ambiguo: una parte di noi si ostina a mostrare che il re è nudo, mentre tutto sommato ci viene chiesto di dire che è un re smart e molto bello.
C’è un modo di interrompere il mieloso coro di omogenea e incondizionata lode della gentrificazione sostenibile ? Oltre ad un libello salvifico come il suo, cosa possiamo fare che non sia “carino” ma utile?
In realtà, mi sembra che in tutto il pianeta ci sia un vociare sempre più diffuso e aggressivo proprio contro questo tipo di gentrificazione. Il punto è che origina nei quartieri più poveri e privati di valore, e dunque viene letto e interpretato dal “centro”, come la voce di fantomatici “incivili” e “analfabeti funzionali” di cui regolarmente si sente dire “non dovrebbero più votare”. Una parte significativa delle cosiddette “rivolte delle periferie” è proprio interpretabile come una rivolta contro il tipo di presente e futuro che viene apparecchiato per loro (e senza di loro). Poi, certo, prende spesso le sembianze di una voce estrema, radicale, violenta e questo alimenta il terrore che il centro nutre per la periferia e ne rinforza i desideri di normalizzazione, controllo politico e sociale e, infine, ne alimenta la violenza, linguistica e non. Questa non vuole essere una giustificazione delle forme più estreme e aberranti della protesta delle periferie, ma un’invocazione ad andare oltre la stigmatizzazione e procedere invece all’ascolto: cosa ci dicono veramente? Penso sia l’unica e vera domanda che dovremmo porci, da cittadini democratici.
Per comodità si riporta ciò che la Treccani riporta alla voce Gentrificazione.
Processo afferente la sociologia urbana, che può comprendere la riqualificazione e il mutamento fisico e della composizione sociale di aree urbane marginali, con conseguenze spesso non egualitarie sul piano socio-economico. Termine coniato nel 1964 dalla sociologa inglese Ruth Glass e derivante dal vocabolo “gentry”, ovvero la piccola nobiltà anglosassone. La g. è un processo proprio delle dinamiche socio-economiche della metropoli contemporanea, la quale ingloba al suo interno una grande eterogeneità di aree e quartieri con diverse caratteristiche socio-culturali e spaziali che possono attirare, per differenti ragioni, un interesse funzionale e/o economico proveniente dall’esterno. La g. può essere indotta dall’alto attraverso piani di riqualificazione strutturale di aree depresse oppure attivarsi in maniera meno diretta tramite processi di rigenerazione ambientale di un’area prescelta da un determinato gruppo sociale e professionale, tipicamente di ambito creativo. In entrambi i casi il risultato è la sostituzione della popolazione locale, che generalmente occupa un posto marginale nelle gerarchie sociali, con i nuovi “coloni” di fascia medio-alto borghese. Il maggiore potere d’acquisto di quest’ultimi provoca un notevole squilibrio nel sistema economico locale che traducendosi nell’aumento dei prezzi degli affitti e del costo della vita costringe la popolazione autoctona alla migrazione verso aree più sostenibili.