AL MAO UNA MOSTRA PER CELEBRARE I 140 ANNI DI RELAZIONI DIPLOMATICHE TRA ITALIA E COREA
In questo autunno torinese, denso di vernissage, fiere d’arte e luci d’artista, anche il Museo d’Arte Orientale ha riaperto la sua stagione espositiva. Lo ha fatto in grande stile il 18 ottobre scorso, inaugurando Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo, alla presenza delle autorità diplomatiche coreane per celebrare i 140 anni di relazioni tra Italia e Corea.
Per la prima volta in questi ultimi due anni, il museo offre al pubblico una mostra distaccata dalle sue collezioni permanenti, che si protrarrà fino al 23 marzo 2025, ma non avrà un’edizione reloaded come le due che l’hanno preceduta. Curata dal direttore Davide Quadrio e da Joanne Kim con Anna Musini e Francesca Filisetti, l’esposizione conta il supporto della Korea Foundation e include opere importanti provenienti dal Nam June Paik Art Center, dalla Fondazione Bonotto, nonché dal Musée Guimet – Musée national des Arts asiatiques di Parigi, dal Museo d’Arte Orientale “E. Chiossone” di Genova e dal Museo delle Civiltà di Roma.
Nam June Paik (1932 – 2006), alla cui opera di ricerca artistica è dedicata questa mostra, fu pioniere della video arte contemporanea, animato dal desiderio di comprendere il controverso rapporto tra realtà e immaginazione, tradizione e innovazione tecnologica nella società odierna, in costante e rapido mutamento. È, dunque, in questo frangente che si colloca Rabbit Inhabits the Moon (Il coniglio che dimora sulla luna), la sua installazione del 1996.
Si compone di due soli elementi: la figura lignea a tutto tondo di un coniglio, posto di fronte ad uno schermo televisivo che proietta il disco lunare. Il profilo di un coniglio sulla faccia illuminata della luna è una pareidolia condivisa in Asia e formano, quindi, una diade frequente nella letteratura classica del continente. L’animale ora travalica il territorio dell’immaginario e si trasforma in uno spettatore attuale, come ognuno di noi, che si specchia attraverso il suo astro, non più reale, ma proiettato sullo schermo di un mezzo di comunicazione. I confini tra reale e virtuale, passato e presente, tradizione e modernità, non sono più così netti, ma sempre più rarefatti. Il visitatore smarrisce le proprie coordinate, il suo nervo ottico non è più diverso da un tubo catodico: egli è spettatore che osserva il coniglio che osserva la luna proiettata dal mezzo televisivo in un continuo gioco di rimandi visivi e concettuali.
Il dialogo si ripete con tutte le altre opere presenti, che si specchiano vicendevolmente e si riflettono, a loro volta, sul pavimento dell’allestimento. Nell’ottica di una narrazione espositiva di più ampio respiro, Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo si configura come terzo frammento del grande progetto comunicativo e trasformativo che il MAO di Davide Quadrio sta portando avanti da due anni e mezzo.
Come Tradu/izioni d’Eurasia. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale, anche quest’ultima è una mostra che vuole sottolineare il potere dell’arte di riflettere e dialogare con il mondo contemporaneo e, dunque, essere un forte richiamo alle sue vicissitudini storiche: se, infatti, la precedente voleva porre l’accento sulle frontiere liquide, osmotiche, sulla connessione fra culture attigue e sull’inutilità delle barriere politiche, quella odierna si offre come strumento rituale che purifichi, con le sue performance che avranno luogo per tutto l’arco della sua apertura al pubblico, dalle tensioni sociali e politiche attuali.
Nam June Paik, in tal contesto, assume le sembianze non solo di artista, ma anche di sciamano, presente e fisicamente assente al contempo, creatore di opere che riflettono sui riti di una società capitalistica e commerciale, ma ancora profondamente legata alla duplice tradizione classicista, confuciana e sciamanica.
Jessica Matarrese