L’architetto Carlo Ratti ha da poco licenziato “Urbanità” con Einaudi un libro in cui racconta di come le città hanno contribuito a promuovere l’incontro tra culture e individui diversi, innescando tumultuose dinamiche di innovazione – come in una sorta di grande acceleratore umano. Un caleidoscopio dove cercare la «città ideale» contemporanea.
Occasione propizia per un’intervista in cui parlare di Torino e del suo futuro.
Architetto, dopo un viaggio all’estero, al rientro la città e talvolta l’Italia tutta appare più piccola, bloccata, come fosse imprigionata dentro ad un incantesimo cattivo. Prova anche lei questa sensazione? Se la risposta è si, da cosa reputa sia dettato questo sentimento.
È innegabile che veniamo da anni difficili per l’Italia e per Torino, e da una crisi lunga almeno due decenni. Io però rimango complessivamente ottimista. Passo pochi giorni al mese in Italia, e il mio è un osservatorio privilegiato: abbiamo un centinaio di persone con background internazionale che lavorano per il nostro gruppo –divise tra lo studio di design e innovazione Carlo Ratti Associati e la start up di robotica di Makr Shakr– e che hanno scelto Torino come loro casa tra tutte quelle del nostro ecosistema (Boston, New York, Londra…) mi fanno sperare sulla capacità della città di attrarre talenti e investimenti.
Il dibattito sul futuro di Torino, su cosa voglia divenire, cosa ambisca a rappresentare, quale tipo di identità desideri per se ed i suoi abitanti sembra inabissarsi e virare ad un pensiero che verte solo sui conti, sui debiti, sulle spese; una grande liquidazione dei progetti e dei sogni. Come se ne esce?
Conosciamo bene la fatica di Torino nel creare strategie di sviluppo che vadano oltre l’identità e l’eredità industriale. È anche vero che c’è un’attenzione preponderante verso i conti e i costi di certi investimenti. Eppure, stiamo vedendo proprio in questi giorni le difficoltà che città, regioni e stato hanno nello spendere gli ingenti fondi europei del PNRR. Non commento nello specifico, ma questo fatto ci aiuta a capire che troppo spesso l’attenzione si focalizza sulla mancanza di risorse, mentre dovremmo concentrarci di più sul progettare i modi per investirle efficacemente.
Questo può voler dire essere flessibili a innovare in modo radicale, e pronti a cambiare prospettiva sulla città. Parafrasando il nostro Carlo Mollino, per essere globali è necessario essere genuinamente locali. E allora perché non volgere l’attenzione alla mobilità e alle infrastrutture di Torino –entrambi parte del suo DNA– ma pensarli anche come modi di creare una città non isolata, ma parte di un sistema produttivo e culturale ampio? Penso per esempio ai collegamenti tra Torino e Milano, che potrebbero portare a una sola, grande metropoli europea. Aprire la città a questo tipo di innovazioni, e al contempo lasciare che la città conservi quella dimensione di provincialismo che la contraddistingue.
Cosa sarebbe opportuno fare per ripristinare fiducia, grinta, carattere, alla città? Trovare un modello da seguire, che so Amsterdam o Londra, per dinamismo e opportunità, o dobbiamo individuare e inventarci un’altra strada?
Come dicevo credo che non si debba guardare troppo lontano. Basta volgere lo sguardo a est – a Milano, unica città globale italiana, oggi in pieno boom. Certo, essere genuinamente locali significa poi trovare una “via torinese” all’innovazione, che non si limiti a copiare ricette aliene. Ci sono molti temi su cui lavorare: le tanto discusse periferie, ma non solo. Penso al bisogno di nuovi spazi di produzione e di giovane imprenditorialità, per cui bisognerebbe puntare su poli di eccellenza universitari, servizi per i giovani e startup. Rinnovare il tessuto imprenditoriale è necessario, a prescindere dalla presenza di investimenti pubblici: questi ultimi possono servire, ma non saranno la panacea della città. Un altro modo per dare nuova grinta alla città nel mondo post-Covid –come sto approfondendo nel nostro laboratorio del MIT con il mio collega economista ad Harvard Ed Glaeser– è dotarla di una nuova dimensione di “incontro”, che motivi le molte persone che hanno scoperto un nuovo equilibrio con la possibilità di lavorare da casa a lasciare la propria “bolla digitale” per riappropriarsi dello spazio fisico e urbano. Insomma, abbiamo bisogno di una città che sia un “laboratorio vivente” per scrollarci di dosso un po’ di paura e di torpore che abbiamo ereditato negli scorsi anni.
L’architettura e l’urbanistica possiedono ancora la capacità di coinvolgere e definire un’appartenenza, o hanno perduto la pietra focaia che accende passioni?
È difficile rispondere in termini generali. Penso a Guido Piovene, che molti anni fa scrisse che Torino è l’unica città d’Italia in cui non si nota lo stridore tra edifici antichi e contemporanei che invece è presente nel resto del Paese. Credo che quest’osservazione rimarchi un approccio della cultura piemontese, che mette insieme passato e futuro senza creare forti dissonanze, e che definisce un senso di appartenenza dei cittadini. Ecco, questo è un tema che può accendere nuove passioni – mettere insieme passato a futuro.
L’abbiamo sperimentato anche noi in prima persona. Penso alla nostra ristrutturazione di Fondazione Agnelli, e al dialogo con l’edificio di inizio Novecento, l’estensione progettata da Albertini e la successiva ristrutturazione di Gabetti e Isola. Oppure penso al Lingotto, che fu fonte d’ispirazione per Le Corbusier e oggetto di reinvenzione da parte di Renzo Piano: la sua storia è una metafora di poteri –legati all’industria torinese del Ventesimo secolo– che cadono e risorgono.
Italo Calvino nelle Città invisibili, scrisse che non bisogna dividere tra città felici ed infelici, ma tra quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati. Se volgessimo questo pensiero, monito, su Torino che cosa ne trarremmo ?
Il monito di Calvino sul potere dei desideri esprime perfettamente la scelta fondamentale davanti a cui si trovano gli architetti di oggi, e che il progettista e inventore americano Richard Buckminster Fuller aveva definito “Utopia or Oblivion”: utopia o oblio. Oblio, se gli architetti non saranno capaci di misurarsi con i cambiamenti in atto.
Utopia, se invece riusciranno a diventare artefici della trasformazione delle nostre città. Del resto, Italo Calvino diceva anche che “Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia”. Credo sia vero, così com’è vero che l’utopia è sempre figlia di un po’ di follia. Dunque, vorrei che la follia dell’antica capitale sabauda –declinata come una follia produttiva e creativa– emergesse liberamente, così da poterla incanalare per sovrastare le sfide globali.