Matteo ce lo propone con uno sguardo grande; la mia avversaria è incerta, freme per il ring. Mi vuole mettere all’angolo. Per ingraziarmela le chiedo se possiede un gatto. Claudia è di corporatura robusta, le braccia forti hanno molti graffi rossi. La carnagione chiara dell’interno avambraccio è infiammata in più punti. Mi dice, con un sorriso strano, che vorrebbe dare un fratellino al suo micio. Ma che il suo compagno non è d’accordo.
Io immagino lui, riluttante ad allargare la famiglia felina, mentre le fa cenno di no con la testa. E intanto guarda la partita Brasile-Germania.
E, al sesto goal, impreca.
Sì, rispondo io. Non riesco a guardarlo in faccia, Matteo, mentre mi parla. Sembra sapere il fatto suo. Ha un taglio di capelli sbarazzino, di quelli che restano spettinati per scelta. Ha gli occhi verde bottiglia.
Bottiglia dell’acqua minerale quando era di vetro, almeno mia nonna la comprava così, negli anno ottanta. Veniva un tizio con la barba a portargliela direttamente in casa. E l’acqua mi sembrava mescolata alla menta, prima di versarla nel bicchiere.
Io volevo fare ginnastica, dico con fare falsamente sicuro. E aggiungo che se fossi salita sul ring senza riscaldamento, il giorno dopo non mi sarei alzata dal letto. Claudia ride forte credendo che si tratti di una battuta. Anche se in realtà stavo dicendo sul serio.
Non lo guardo negli occhi, Matteo. Mai. Osservo però come muove le braccia, le gambe, il busto, le spalle, il collo a destra e sinistra.
Ad un certo punto, non so cosa lo spinga, e ancora me lo chiedo; Marco si avvicina e inizia a correggermi. Per farlo mi prende il braccio destro e poi il sinistro. E spiega e rispiega quello che continuo a sbagliare. Si scusa di essere un rompipalle, Matteo.
Non vorrebbe disturbarmi, dice. Io lo lascio fare. Sempre senza guardarlo direttamente negli occhi, che altrimenti mi salgono le lacrime, ripensando a mia nonna e al tinello della sua casa in affitto, in via Pio Settimo, dove lucevano le bottiglie, sotto il lavello bianco. E il sole le bagnava e sembravano l’aurora boreale agli occhi di quella bambina che ero.
Alla fine, dopo trenta minuti di riscaldamento, l’allenatore ufficiale, Stefan, ci invita a salire finalmente sul ring. Claudia è radiosa, si frega le mani. Conserva il sorriso strano e, con un ghigno soddisfatto, si infila i guantoni neri.
Saliamo sul quadrato. Io schivo i colpi e ballo, forse Matteo ci sta osservando. Ma non posso perdere d’occhio la mia avversaria e i suoi guantoni neri che mi si avvicinano sempre pericolosamente agli zigomi, al mento, allo stomaco.
Guardo i poster di Alì, e ballo, ballo facendole girare la testa. Stefan mi incita. E ci corregge, ma senza toccarci mai.
Un cretino di cui non mi ricordo il nome fa la più scontata delle battute. Manca solo il fango, dice. A me verrebbe voglia che ci fosse per davvero una pozza marrone a cui attingere a piene mani, per lanciargli una palla di acqua melmosa e…detriti, magari.
Stefan dice di non badare al tizio di cui ho scordato il nome. Io lo perdo di vista e rimango concentrata su Claudia. E’ molto alta, e troneggia su di me. Non è molto veloce perché, mi dice, ha la tallonite. Tallone d’Achille, menomale. Penso, sollevata.
Quando paro i suoi colpi, io che l’attacco di rado, mi sembra di arrivare sempre giusto in tempo. E menomale che aveva la tallonite.
Alla fine scendiamo dal quadrato.
Claudia è soddisfatta, io sollevata. Conserva in parte quel sorriso strano, mentre io prendo il tappeto per gli addominali.
Inizio da sola. Si è fatto tardi e ho solo un quarto d’ora per dedicarmici.
Mentre sono stesa sul tappetino azzurro di plastica, e sento le voci ovattate intorno, e guardo il soffitto e le luci al neon che si sono accese, mi sento toccare il gomito destro.
Mi volto, curvando appena il collo. E lo guardo. Da quella posizione, Matteo, sembra capovolto.
“Devi lasciare il gomito destro appoggiato a terra, mentre con il sinistro vai a toccare il ginocchio destro. Così farà più male, ma è più utile.”
Mentre esco dalla palestra, inforco la bici e slego la catena, e penso a molte cose. Le cose perfette fanno male, fanno più male. L’ha detto Matteo. Che di boxe se ne intende e anche di preparazione atletica. Ma di vita? Di vita, Matteo, di vita, se ne intende?
Mi piacerebbe- penso- guardare all’imperfezione mia e degli altri con compassione. Accettare una vita imperfetta e poterla godere così com’è, imperfetta. Guardarla- questa vita di cui solo io resto l’esperta, perché è la mia- con gli stessi occhi stupiti di un bambino di fronte ad una luna bitorzoluta, alla superficie di un mare increspato da onde giocose, o di fronte a una bottiglia d’acqua minerale, conservata in una semplice bottiglia di plastica, che, a versarla nel bicchiere, si stropiccia pure un po’.
Silvia Scarrone
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