Marco Boglione Cavaliere del lavoro 2011

La famiglia, l’amicizia, la costanza.
I 60 anni di Marco Boglione, ragazzo fortunato, imprenditore dream-maker.
Attraversare la porta anni ‘50 della BasicNet in Largo Maurizio Vitale a Torino è un po’ come entrare in un mondo parallelo, dove il “bello” è sì, valore estetico, ma inteso come sinonimo di utile, efficiente, di etico persino. Eppure stiamo parlando del gruppo proprietario di Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, Superga e K-Way, azienda quotata alla Borsa italiana dal 1999, della quale Marco Boglione è fondatore e presidente, gruppo che riunisce oltre 400 imprenditori con un indotto di 15mila persone in più di 120 Paesi, e dove il business e il profitto, tutt’altro che demonizzato, non è certamente in secondo piano.
Qui tuttavia si è riusciti nel creare una dimensione che, ispirata dal carismatico fondatore, è riuscita a esplicarsi in una filosofia talmente chiara da essere visibile anche ad una prima occhiata, respirabile: avere un ordine estetico e morale in binario parallelo non può che fare bene a chi ci lavora, a chi produce e al consumatore.
Semplice? Solo in apparenza.
Intanto la struttura aziendale coinvolge l’intero isolato: dove un tempo c’era il Maglificio Calzaturificio Torino (MCT) tra corso Verona, via Foggia, corso Regio Parco, in pieno Borgo Aurora. Qui si sviluppa un’area che, grazie all’attento progetto dello Studio Baietto Battiato Bianco Architetti Associati, su indicazione dello stesso Boglione, si è aperta letteralmente alla città seguendo i tre criteri di residenza, lavoro e tempo libero. L’idea è quella di un villaggio che si sviluppa intorno ad una piazza con più accessi, dove non mancano i servizi principali, persino un rinomato ristorante-pizzeria, senza perdere l’immagine di antica fabbrica. Tutto funziona con un’efficienza che non perde il sorriso, e la netta sensazione di far davvero parte di un tutto.

Abbiamo incontrato Marco Boglione per una ricorrenza speciale: il 9 maggio compie 60 anni, splendidamente portati, e il 5 maggio viene insignito a Roma del prestigioso premio Guido Carli, dedicato alla memoria dell’indimenticato presidente della Banca d’Italia e organizzato dalla nipote, Romana Liuzzi. Giunto alla settima edizione, il premio viene assegnato ogni anno ad illustri personaggi del mondo dell’economia, dell’alta finanza, della cultura e dell’impegno sociale: Gianni Letta aprirà la cerimonia e le onorificenze saranno assegnate da una giuria composta da Azzurra Caltagirone, Urbano Cairo, Giovanni Malagò, Matteo Marzotto, Mario Orfeo, Debora Paglieri, Barbara Palombelli, Antonio Patuelli, Antonio Polito, e Giuseppe Recchi.
Prima di questa intervista rileggiamo il volume scritto a quattro mani con il giornalista del Sole 24ore Adriano Moraglio nel 2008 dall’emblematico titolo Piano Piano che ho fretta: imprenditore è bello! (libro che andrebbe adottato all’Università di Economia, se non è già stato fatto!)
Il titolo, che deriva direttamente dal latino festina lente (affrettati lentamente) già adottato da Cesare Augusto e poi da Cosimo I de’ Medici, diventa emblema di un atteggiamento mentale che ha con il tempo un rapporto saggio, dove è meglio fare bene le cose anziché in fretta, anche se sembra di metterci più tempo, è che sa riconoscere l’importanza dell’imparare a fare le cose in prima persona: queste le qualità del vero leader, ieri come oggi.

D.: Piano piano che ho fretta, ma anche carpe diem. 60 anni, 40 anni di lavoro… i pensieri di un ventenne.
Qual è il suo rapporto con il Tempo?
R. Il Tempo non puoi ignorarlo però non lo devi neppure vivere come un’imposizione: bisogna navigare come su un torrente, ci sono momenti in cui puoi fermarti, altri in cui vorresti ma non puoi e allora lo devi lasciare andare. Ho sessant’anni e confermo, vorrei iniziare un nuovo trip, un nuovo percorso, se poi saranno 61 non importa, è importante che io riesca a tenere fede a questa mia vision, a questa promessa che ho fatto a me stesso: il 9 maggio festeggerò in famiglia, riaccenderò l’Apple 1, però dal giorno dopo si riparte. Ripeto, voglio tenere fede a questo mio progetto… non sono sicuro che ci riuscirò ma questo è il bello. Sento già qualche critica, ma perché vuoi ricominciare dopo 40 anni di lavoro, le cose vanno piuttosto bene… ma io voglio ricominciare con qualcosa di nuovo, o quanto meno provarci.
D: Nell’azienda c’è già la nuova generazione, lavorano due suoi figli (Lorenzo e Alessandro)…
R.: Sì, stanno facendo piuttosto bene, stanno lavorando con saggezza, hanno un ruolo chiave ma più manageriale che imprenditoriale… La sfida dell’azienda, il mio prossimo obiettivo, a cui accennavo prima parlando del prossimo capitolo della mia vita, è quella di ampliarsi ancora, ancora più public company. Per me è connaturata con l’essere umano questa esigenza di guardare sempre avanti, pensi solo all’evoluzione: siamo una specie non contemplativa ma operosa, credo nel vivere per lavorare e non il contrario. Considero lavorare un grande privilegio, non solo una fatica: le persone soffrono nel non lavorare, sono frustrate nel non essere utili, problema che psicologicamente supera di gran lunga quello economico.
D: Dietro ad un grande uomo c’è un grande team?
R: Si, credo nel gruppo, oggi si chiama link, collegamento: è tutto all’insegna del collegamento. Per principio io non ho “dipendenti: ho “colleghi”. E’ molto meglio se la gente è “collegata” a te, anziché dipendente, cioè che dipende da te, che aspetta di sapere cosa deve fare. Se è collegata a te con la logica di Internet e quindi se è linkata a te non c’è nulla di interdipendente: funzioni diverse, collegate al Server, che è il Leader, ma poi tutta la rete si muove intorno, sullo stesso piano. Questa è la vera forza del futuro: l’azienda fatta a rete, essere sempre virtualmente presenti 24 ore su 24 in tutto il mondo: la nostra azienda non ha la “Casa Madre”, noi siamo un network. E’ questa la forza del futuro.
D.: Cos’è la leadership?
R.: Oggi è un concetto diverso da quello storico, il cui il leader era il solo riferimento: cambi il leader, cambia tutto. No, non è più così. Questo è il problema che abbiamo oggi con il terrorismo, che non ha un vero leader, ed è il motivo per cui è difficile individuare un capo e sconfiggerlo. Chi è che dà gli ordini? Probabilmente tutti e nessuno. O manteniamo il vecchio, consolidato concetto di leadership piramidale alla giapponese o sposiamo un nuovo concetto di rete, che colleghi veramente la classe dirigente con i cittadini, per un’unica missione chiara di interesse comune. La cosa peggiore è quando non si verifica nessuna di queste due condizioni, che poi è il problema che ha l’Europa adesso: manca il leader “classico” ma non c’è neanche un sistema allargato che coinvolga davvero i singoli in una comune visione.
D.: Questa struttura orizzontale, questa rete, trova la sua concretizzazione anche nella scelta architettonica della sua azienda, costruita intorno ad un piazza…
R.: Quando iniziai negli anni novanta, mi dovetti occupare della ristrutturazione dell’azienda. Mi venne l’idea di trasformarla in un villaggio: si parte dall’agorà, dalla piazza commerciale, se non c’è villaggio… poi bisogna pensare alla gente che ci lavora, che ci vive, che ci passeggia… Volevo una struttura completamente diversa dalla vecchia fabbrica verticale, e quindi mi andavano bene degli open-space, grandi locali un tempo dedicati alla produzione e alla tessitura che ora sono loft dove si vive, io stesso vivo qui. La ristrutturazione è durata qualche anno, la gente veniva a vedere e trovava somiglianze con il modello americano, ma io non li ho imitati, è che ho un modo di pensare evidentemente molto simile: più utile, più contemporaneo, più funzionale. La ristrutturazione però ha tenuto conto dell’aspetto storico, ha mantenuto molto dei vecchi edifici, tutto quello che era armonizzato con il contesto, come i pavimenti o gli apriporta maraca Yale ancora perfettamente funzionanti: non ci chiameremmo “Basic”.

D.: Chi è un buon imprenditore?
R.: L’imprenditore prima deve dare e poi ricevere: il mercato prima deve ricevere. Tu devi credere nell’investimento e sperare (non speculare!) di ricevere in più: questo è essere imprenditore. Come nel mercato, così alle persone: quando ho pensato alla ristrutturazione dell’azienda ho pensato ai benefici che avrebbero avuto coloro che qui lavoravano. Provocatoriamente potrei dire che li avrei sfruttati meglio, perché sarebbero stati più generosi, più intraprendenti, perché avevano ricevuto ancora prima di dare. Noi siamo un gruppo di bravi ragazzi, poi magari non siamo i più smart ma come gruppo siamo solido. Io credo molto nel valore della gratitudine e nella bontà della persone.
D.: Un suggerimento per un ragazzo che volesse fare l’imprenditore oggi?
R.: Trovati un amico perché all’inizio ci crederai solo tu e un amico, un sostegno può fare la differenza. Steve Jobs ha iniziato con il suo amico Steve Wozniak: nel garage bisogna essere in due.
D: Ci parla del suo grande interesse per l’informatica?
R.: L’interesse per l’informatica è generazionale. Io sono nato un anno dopo Bill Gates e Steve Jobs e negli anni ‘70 c’erano grandi cambiamenti, rock, politica, poi c’era l’informatica. In molti si è capito che questa era la rivoluzione nel mondo, era una vera e proprio ideologia, quella dell’information technology, il sogno che ciascuno un domani potesse avere un computer ed essere collegato: questo aveva un grande sapore di libertà, di potere. Non erano nerd, erano sognatori che avevano intuito un grande potenziale. I rivoluzionari informatici hanno portato una grande libertà, che si misura nella possibilità di accesso alle informazioni. Se tu vuoi tenere la gente soggiogata impedisci l’accesso alle informazioni. Senza l’informatica non sarei diventato l’imprenditore che sono oggi. Implementavamo i processi industriali con l’informatica, con costi bassissimi ad altissima efficienza, cimentandoci in business perdenti in partenza, come le vendite per corrispondenza… Con internet abbiamo capito che potevamo produrre un network di aziende collegate che producevano gli stessi prodotti con i nostri marchi e che li vendevano in tutto il mondo, come la BasicNet, un’azienda non azienda. Come dicevo non c’è la casa madre, non c’è magazzino: noi siamo proprietari di brand, io lavoro sulle royalties e tutto il business – ovvero l’intera catena della domanda e dell’offerta – avviene sulla piattaforma informatica. Abbiamo iniziato nel 1994 grazie ai microsoftware e ai microcomputer e dopo vent’anni siamo qui: era giusto provarci. Non vuol dire che ce la faremo… L’imprenditore è come uno che scava una galleria, devi sempre scavare con la stessa tensione del primo metro, perché può sempre caderti tutto in testa. La tensione va tenuta sempre alta.
D.: Quando ci si riposa?
R.: Quando si può continuare a lavorare senza dover più guadagnare. Non voglio smettere di lavorare; è come essere il pilota, che guiderà sempre: ma un conto è guidare per vincere il Gran Premio e un conto è guidare per se stessi, senza un’eccessiva ansia da prestazione. Magari anche per insegnare.
D.: Il rapporto con la sua famiglia.
R.: Nella vita ho fatto quello che sentivo fosse giusto fare, nel mio interesse per primo. L’etica è una conseguenza: ti conviene essere etico. Anche qui bisogna dare e poi ricevere perché questo ci è stato insegnato. Mia madre ha sempre dato: fare a gara a chi dà di più diventa un processo virtuoso, tutti noi tre fratelli abbiamo impostato le nostre vite con lo stesso spirito.
D.: Un ragazzo fortunato?
R.: Si, lo posso dire, sono nato in un ambiente perfetto in un momento perfetto. Ma non basta, ci vuole anche il destino. Le sliding doors del destino. Fortune means when preparation meets opportunity.

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