Capitolo 1

 IL GIARDINO

uomo che urlava alla luna“Ancora non capisco questi piccoli senza neppure un pelo.” Pensò Chandra muovendo la sua lunga coda e osservando il musetto della padroncina di dodici anni appena compiuti.
La guardava con insistenza. Il faccino, che lentamente andava sbocciando, appoggiato alle braccia conserte e il corpo a pancia in giù.
Una di fronte all’altra la ragazzina e la gatta formavano una strana coppia. La prima incuriosita e la seconda meravigliata dalla creatura senza peli né coda che la seguiva come un’ombra per il giardino assolato.
Mavì quel giorno si annoiava e la noia sembrava non darle tregua dal mattino.
Le vacanze estive da poco iniziate le avevano trasmesso una speranza euforica. Cercava l’avventura. E neanche la decisione del padre di trasferimento aveva fatto crollare questo suo entusiasta presentimento.

“Questa estate sarà speciale” pensava sicura Mavì.

La prima volta che con la macchina, e il furgone del trasloco alle calcagna, era entrata nelle fauci della città aveva tremato d’aspettativa e paura per poi essere risucchiata dietro il cancello della sua nuova casa sul Lungo Po Machiavelli.

Il padre aveva sempre avuto un innamoramento spaventoso per le grandi case con giardino: «Mavì, mi aiutano a creare le storie più belle del mondo» diceva sempre. Eppure mai una sola volta Mavì aveva potuto vederlo all’opera.

Ogni mattina dopo la sveglia e la colazione preparata da Yasmin, la governante che fin dalla nascita si occupava di lei, il padre si richiudeva dietro le porte del suo studio e non ne usciva neppure per il pranzo. Solo a cena aveva la possibilità di rivederlo, ma era così assorto nella sua opera da guardarla e non vederla. La osservava con molto scrupolo, dai suoi occhialetti rotondi e spessi, come per studiarla, ma non le chiedeva mai come fosse andata la sua giornata o se Chandra avesse fatto qualche pasticcio.

Lei in questa falsa libertà ci sguazzava, ma sempre con quella tristezza di chi è lasciato solo a se stesso.

Alle volte, quando era intenta a camminare dietro la gattona, pensava a quanto le mancava la sua mamma. La mamma che non aveva mai conosciuto perché era andata in cielo per lasciare il posto a lei.

Mavì aveva questa strana teoria: la teoria del tappabuchi.

Questa teoria l’aveva scoperta guardando da vicino la natura e le sue creature. Aveva notato che non c’erano mai momenti vuoti. Qualcosa si sostituiva sempre a qualcosa d’altro. L’occhio non riposava mai perché aveva sempre qualcosa di nuovo da guardare. Ecco: lei e la sua nascita, in quest’ottica e in questo strampalato ragionamento, avevano sostituito la sua Mamma. Lei era solo volata da un’altra parte.

Dharma, la gattona nera e in contropelo bianca di dodici anni, era suo lascito.

Le aveva lasciato Chandra come regalo, di questo era certa. Certissima.

Ecco perché la seguiva speranzosa. Ogni giorno confidava che la portasse dove era volata lei.

Capitolo 2

L’URLO

Chandra sonnecchiava sul grande cuscino della poltrona in vimini. Si era accoccolata poco dopo aver fatto un buon pranzetto di tonno e carote stufate, con lo stomaco bello pieno aspettava pazientemente che Mavì finisse il suo frullato. Succhiava dalla cannuccia e poi ci soffiava dentro per vedere le bollicine d’aria esplodere in quel brodo di frutti estivo.

Ogni tanto la piccola umana si fissava e osservava per lunghi attimi il fiume. Chandra non aveva molta simpatia per l’acqua, come tutti i gatti che si rispettino, ma questo corso d’acqua le trasmetteva molta calma. Il giardino era un recinto protettivo e ne era molto contenta.

Uno sbadiglio assonnato la sorprese, così come il dito dispettoso che Mavì infilava sempre nelle sue fauci spalancate. Lei le leccava pazientemente il dito colpevole e la guardava ridere con i suoi occhi grandi.

Era una bella ragazzina, ma sempre malinconica. I capelli erano una foresta di ricci castani e il

faccino a cuore era color caffè latte. Aveva degli occhi scuri e profondi, molto svegli e luminosi, allungati come quelli di un cucciolo felino. Le ricordava un po’ i piccoli che non aveva mai  avuto ed era per questo che la teneva d’occhio come una mamma fa con la sua cucciolata.

Era tutto ciò che le rimaneva della sua compagna di vita, Indira, la mamma di Yasmin. Si era promessa, quando aveva visto quel visino rugoso gridare e sbrodolare, che si sarebbe presa cura di lei.

Il fiume era tranquillo e silenzioso e Chandra si domandava che cosa avrebbe deciso di fare quel pomeriggio assolato Mavì nell’attesa di quell’uomo tanto strano.

Il frullato oramai era finito e lei stava con la testa appoggiata alla spalliera della poltrona a canticchiare sottovoce. Il padre si era chiuso da ore nello studio e Yasmin era uscita a fare la spesa.

“Chissà che cose buone porterà a casa Yasmin” pensò Chandra leccandosi i baffi.

Il brivido della speranza di vedersi servire del tonno la sera risvegliò la gatta che, dopo essersi stiracchiata per benino, decise di alzarsi e con un balzo aggraziato scese dalla sua cuccia improvvisata. Miagolò per attirare l’attenzione della bambina.

«Lo so, lo so, Chandra. Ma cosa possiamo fare nel frattempo?» le domandò sconsolata.

Dharma era molto fiscale sui lamenti della sua padroncina, era una piagnucolona quando ci si metteva e così, un poco per dispetto, le sventolò la coda davanti e si incammino sola verso il giardino.

«Ehi! Tu! Non scappare gatta antipatica!» gridò scattando in piedi e sistemandosi il vestito a fiori stropicciato intorno alle gambe.

Il giardino era molto grande e le piante sparse qua e là creavano grandi isole d’ombra. Un muretto in pietra lavorata separava il perimetro della casa dal resto del mondo e se si guardava giù si potevano osservare le persone passeggiare sul lungofiume. Chandra aveva già notato cani scodinzolare dietro i loro padroni :“che animali stupidi..” pensava dall’alto della sua postazione.

Mavì invece poteva stare a guardare per ore quel via vai di gente e vita. Ogni tanto storceva il naso al sapore acre di tabacco che si levava da qualche gruppetto di ragazzi che fumavano. Né l’umana né la bambina capivano come si potesse avere il desiderio di aspirare qualcosa di così puzzolente e nauseante.

Il giorno prima, durante il loro studio accurato, avevano avuto un po’ di paura. Ma era passata subito con il trascorrere del tempo e della giornata al riparo nella casa e durante la nottata si era trasformato in qualcosa di più. In pura e famelica curiosità.

Tutto era cominciato con un grido di un uomo. Subito le due incuriosite si erano sporte dal muretto e avevano scorto in lontananza un uomo trasandato gridare ai quattro venti. La camicia aperta sulla canottiera svolazzava ad ogni gesto furioso e ad ogni urlo rauco. Non erano riuscite a capire che cosa dicesse se non poche parole, ma comunque confuse.

L’uomo assorto nel suo dialogo solo per un attimo aveva alzato lo sguardo e le aveva intraviste tra il fogliame del giardino. I suoi occhi erano azzurri come il cielo, freddi e luminosi come le pietre che Yasmin collezionava da diversi anni.

 Aveva il volto segnato da molte rughe e all’appello della sua bocca mancavano diversi denti. Le unghie erano lunghe e quasi nere come se avesse passato la sua vita a scavare nella terra.

Il naso era affilato, ma storto, e i capelli erano grigi con qualche striatura di bianco. Sembrava un fantasma e sia Mavì che la gatta avevano tremato di spavento per qualche secondo.

L’uomo urlante le fissava come se le riconoscesse.

Improvvisamente aveva smesso di urlare al vento e poco dopo con la testa bassa aveva continuato per la sua strada sussurrando tra sé e sé e aumentando l’andatura nervosa.

Quell’episodio singolare le aveva fatte tremare, prima di paura e infine d’aspettativa.

Volevano rivederlo, sempre protette dal muretto alto, il loro personale trespolo. Di certo l’uomo urlante non poteva arrampicarsi fin lassù. Al sicuro e senza timore potevano osservarlo e ascoltarlo.

E così le due unite in questo desiderio pericoloso aspettavano il suo arrivo.

Capitolo 3

BABACAR

Da un’ ora e quarantadue minuti aspettavano senza distrarsi, ma stavano perdendo pian piano le speranze, anche perché il sole diventava sempre più cocente.

Arrivata l’ora di pranzo non avevano intravisto nessun uomo urlante. Solo cani abbaianti e scodinzolanti, qualche vecchietto, un’ oca particolarmente socievole (tranne che con i cani) e qualche coppietta che mano nella mano aveva rischiato di essere investita in pieno dai ciclisti ritardatari che cercavano di godersi i minuti persi.

«Chandra, secondo te era reale o ce lo siamo immaginate?» chiese Mavì sbadigliando.

La gatta rispose allo sguardo e allo sbadiglio decretando la fine della loro guardia. Saltò giù dal muretto e mentre si stiracchiava sul viale ciottolato appena accennato fece il suo ingresso Yasmin dalla porta finestra.

«Cuore mio è ora di fare pranzo!» urlò per richiamare l’attenzione di Mavì «Sbrigati e non stare sotto il sole caldo, è pronto!» detto questo lasciò dietro di sé la portafinestra aperta e rientrò dentro il salotto ombreggiato.

Non aveva fame Mavì, o meglio, non aveva quel tipo di fame. Aveva fame di compagnia. Di amici. Non voleva più sentirsi sola in quelle grandi case. Non sopportava i continui trasferimenti dettati dagli umori del padre. Voleva un’avventura capace di riportarla a casa, se mai esisteva un posto simile in questa grande città.

Non voleva aspettare che l’estate finisse per farsi degli amici, ma la scuola era lontana e non era neppure certa che il padre avrebbe deciso di rimanervi o se era solo provvisorio, per il nuovo libro di illustrazioni a cui stava lavorando.

Sbuffò di nuovo e osservò il fiume più avanti e notò una fogliolina scendere dall’albero più alto. Sembrava un’elica, solitaria, d’elicottero. Scendeva volteggiando e danzava nell’aria senza un preciso punto d’atterraggio.

Sobbalzò all’urlo di Yasmin che per l’ennesima volta la richiamava all’ordine e soffiandosi sui gomiti sporchi di granelli di pietra ritornò verso la grande casa.

«Pizza!» esclamò Mavì felice. Yasmin stava seduta al suo fianco e sorrideva benevola.

«Cosa ti dico sempre Cuore mio?» chiese.

«Che non c’è di meglio di una pizza in compagnia per farsi passare il cattivo umore..» disse con la bocca già piena di una fetta.

Poco più in basso Chandra stava elegantemente leccando tutta la salsina del riso con i gamberetti. Sentì gli occhi della sua bambina addosso e la osservò per un secondo. Aveva il faccino sporco di farina e le labbra rosse di pomodoro. Stava crescendo in fretta e neppure se ne rendeva conto.

“Beati umani che invecchiano lentamente, anno per anno..” pensò la gatta addentando un piccolo gamberetto sgusciato.

«Dopo un buon pranzo e i tuoi esercizi di disegno potrai startene tutto il pomeriggio sul tuo trespolo» disse masticando una fetta Yasmin « E poi mi accompagnerai al mercato e dal vicino, sappilo. E’ ora che inizi a socializzare..» concluse ridendo.

«No! Sono sicura che sarà un vecchietto, come tutti gli amici che ti sei fatta nelle vecchie case. Non voglio, no!» sbraitò Mavì con un pezzo di crosta in mano.

«Vedrai che ti piacerà e poi andando al mercato potrai vedere un po’ la città!» disse «e magari.. incontrare qualche bel ragazzino» concluse ammiccandole.

«Ma così non vale!» ribatté Mavì divertita dalla piega che le conversazione stava prendendo.

Sapeva che qualcosa in lei stava cambiando. Era sempre più interessata agli altri ragazzi della sua età, ma era anche molto timida. E quando succedeva diventata scontrosa o addirittura sfuggente. Aveva paura di affrontare la città con i suoi mostri di tram, ma era anche eccitata all’idea di vederla, conoscerla, sentirne gli odori e i colori. Ma.. “il suo uomo urlante? Se non lo avesse più visto?” pensò sconsolata.. Oppure.. magari uscendo avrebbe avuto più possibilità d’incontrarlo e sarebbe comunque stata al sicuro, perché con lei ci sarebbe stata Yasmin.

Guardò Dharma e si sentì di tradirla lasciandola a casa e decise che la serata l’avrebbe passata con lei nel giardino, senza dir nulla a nessuno e aspettando che Yasmin e il padre si fossero ritirati nelle loro stanze. Con questo nuovo piano, spaventosamente ribelle per il suoi standard, addento coraggiosamente l’ultimo trancio di pizza e lo masticò con una rinnovata energia.

Aveva ragione la sua tata quando diceva che una pizza poteva smussare anche una giornata spigolosa.

Disegnò e disegnò per due ore, infinite. E mentre la matita sfiorava il foglio bianco, per un secondo, si sentì parte del padre. Lo ascoltava muoversi per lo studio come un animale in gabbia, come si sentiva lei ogni qualvolta doveva fare gli esercizi di disegno. Non che si lamentasse del suo dono innato, ma doveva per forza farlo? Non poteva fare altro? A lei piaceva esplorare, correre e arrampicarsi. Lei voleva risolvere misteri. Come un archeologo avventuroso.

Soffio sui resti della gomma da cancellare e li fece cadere per terra, sogghignò.

«Pulirai poi tu?» la riprese Yasmin che era comparsa dal nulla.

Mavì spaventata e sentendosi in colpa non osò guardare il cipiglio, che sapeva essere arrabbiato, della tata.

«Forza, andiamo al mercato» disse con voce un poco più morbida «e non fare quella faccia abbattuta, sorridimi.»

Mavì corse ad abbracciarla, forte. E insieme si avviarono verso la porta di casa.

Il cuore iniziò a battere forte quando il sentiero di ghiaia finì e il cancello vecchio e lavorato s’aprì. La città era davanti a lei.

Istintivamente afferrò la mano di Yasmin. «Non aver paura, vedrai che ti piacerà.» Disse lei pacifica come sempre.

Varcarono la soglia e presero il marciapiedi.

Tutto era colorato e veloce, troppo veloce. Le macchine, le persone ed eccolo, il tram arancione, che sferragliando arrivava verso di loro.

Strinse ancora più forte la mano di Yasmin mentre gli andavano incontro.

Prima che potesse travolgerle con il suo sbuffo dato dalla velocità sostò ad una fermata e vomitò persone di tutte le età e di tutti colori. Cinesi, africani, italiani. Biondi, mori, rossi, neri. Mavì iniziava a sentirsi euforica per tutta questa molteplicità di forme e colori, di suoni ed odori.

Vecchi portavano a passeggio il loro cane. Chissà perché, pensò Mavì, i cani assomigliano così tanto ai loro padroni. Sorrise e poco dopo erano giunte al mercato di Piazza Santa Giulia.

Era un caos di colori anch’esso. Chi urlava. Chi rideva. Chi sorseggiava tè e chi mangiava un panino. All’angolo con il panificio vide un fioraio su quattro ruote e il loro profumò la investì mischiandosi all’odore di pane e pizza fresche. I compratori sostavano qua e là e Yasmin si fermò proprio davanti al fruttivendolo. Scuro di pelle e sorridente le passò una cesta in vimini e la invitò a servirsi.

Lei prese verdure, ortaggi e frutta per loro e le chiese di cercare lo zenzero per il loro “amico”.

Sicuramente il vecchio vicino a cui voleva dare una mano. Non capiva la sua simpatia per i vecchi. Erano insipidi e alle volte anche puzzolenti. Le avevano insegnato il rispetto, ma non a dire bugie. Era la verità. E poi che cos’era questo zenzero.

Cercò per qualche minuto e poi alzando lo sguardo vide una donna con il velo e il pancione osservarla sorridendo sotto i baffi.

«Cerchi qualcosa signorina?» le chiese cortese.

«Dello zenzero» disse timida.

Le indicò un cesto pieno di strane radici, erano grassocce e color beige chiaro, non aveva mai visto una cosa simile. Avevano delle protuberanze che si diramavano dal corpo centrale. Ne prese una in mano, che sembrava una bambola stilizzata, e la infilò nel sacchettino.

«Ne vuoi altro?»chiese la donna con il velo e il pancione.

«No grazie» rispose Mavì tenendo in mano la radice come se fosse davvero una bambola viva.

Yasmin pagò e proprio quando stavano ritornando verso casa, prima di svoltare l’angolo, dei ragazzi alla velocità della luce tagliano la strada a lei e alla tata.

Per un pelo il capofila, un ragazzino scurissimo di pelle, non la investì in pieno. Il sacchettino le cadde di mano e lei per lo spavento arretrò di qualche passo.

Il ragazzino si voltò per un breve secondo rallentando la sua folle corsa e la guardò. Guardò il sacchettino per terra e la sua espressione sembrava dispiaciuta. Mavì ricambiò lo sguardo con un cipiglio infuriato e i capelli le finirono davanti alla faccia. Un ricciolo scuro e dispettoso le solleticò le ciglia. Lo respinse con un colpo secco della mano. La mano di Yasmin la aiutò a rialzarsi e il ragazzino oramai fermo sorrise imbarazzato. Aveva i capelli nerissimi e crespi. Ne aveva tantissimi e sembravano una mongolfiera sopra la sua fronte. Era vestito semplicemente, ma molti buchi costellavano i suoi pantaloni scuri. I ragazzini che erano con lui lo esortarono tirandolo per il braccio. SI voltò ridendo verso di loro e poi le fece un inchino. Si inchinò per chiederle scusa. Mavì sentì la faccia diventare bollente. Era rossa come un pomodoro e prima che potesse rialzare gli occhi il ragazzo era sparito dietro l’angolo.

«Beh almeno qualcuno gli ha insegnato le buone maniere a quel teppista» borbottò ridendo Yasmin e riprendendo a camminare.

Mavì era rapita dalla corsa di quei giovani. Voleva essere con loro, parte del loro gioco. Poi ripensò   alla sua scortesia e al suo inchino. E se voleva solo prenderla in giro? Si guardò e vide se stessa. Il vestito era a fiori terribilmente infantile e si maledisse per aver lasciato a Yasmin la scelta del suo abbigliamento per quel giorno. No. No. No. Che figuraccia, pensò arrabbiata con la vita.

Seguì la tata sbuffando sul viale e ripercorrendo la strada a ritroso giunsero alla casa vicina alla loro, ancora più grande e più scura. Selvaggia. Le piante avevano fagocitato quasi tutto il viale che dal cancello portava alla porta d’ingresso. La facciata della casa era ricoperta d’edera. Assorbiva tutto il sole e la rendeva maestosamente verde. Un albero casa. Yasmin suonò il campanello e Mavì era pronta a vedersi comparire davanti il solito vecchio avvizzito e invece..

Dalla porta uscì un uomo sulla cinquantina, giovane e senza una ruga. Vestito in modo stranissimo e colorato. Portava una lunga tunica color dell’oro con strani disegni e simboli incisi sul tessuto. Zoppicava nel avvicinarsi verso il cancello, il bastone che teneva in mano era scuro e rugoso, come se avesse assorbito la vecchiaia del suo padrone. Il signore era distinto, nonostante i passi lenti, quasi elegante nell’incedere verso di loro e le sue mani erano l’unica parte del corpo che dimostravano la fatica, doveva lavorare molto con esse. Mavì alzò lo sguardo e lui la guardò. Gli occhi neri e profondi la fissavano senza nessun giudizio. Erano color del buio, ma qualche striatura  di cioccolato compariva sotto i pochi raggi che riuscivano a penetrare dal folto degli alberi. Lui aprì la porta mente Yasmin lo salutava calorosamente. Un gatto fece capolino dalla porta di casa. Un gatto dal manto bellissimo e bianco. Lei ne rimase affascinata e seguì i due verso la grande dimora buia.

«Lei si chiama Vêre» disse l’uomo mentre il felino li seguiva nell’anticamera.

«E lei come si chiama?» ebbe il coraggio di chiedere Mavì per cortesia.

«Babacar» rispose « E tu signorina?» le chiese con il tono divertito dalla sua reticenza.

«Mavì.»

«Un bel nome, per una bella signorina piena di vita» disse facendo strada a lei e alla tata verso la pittoresca cucina «Gradite una tisana di zenzero?» chiese prendendo il bollitore che riposava sul fuoco.

Mavì strinse la sua bambola di zenzero oramai viva e con un cenno del capo disse di sì. Anche se voleva dir di no.

Capitolo 4

I FIORI DEL BAOBAB

 

Nessuno le aveva insegnato a interagire con una persona così diversa da lei.

Alla sua domanda « perché indossa questi strani abiti da donna?» Yasmin l’aveva pizzicata forte alla gamba. Aveva sobbalzato e si era sentita sprofondare.

Babacar era scoppiato in una fragorosa risata. I suoi occhi brillavano per il divertimento.

«La deve perdonare Babacar.. Non è avvezza ad aver a che fare con il mondo» si scusò per lei «è sempre stata una bambina molto curiosa» continuò.

«Certamente.. certamente» rispose l’uomo continuando a sorridere sotto i baffi «la curiosità è uno dei doni più preziosi di cui l’universo ci fa dono..» concluse facendole l’occhiolino.

Mavì non capiva quale fosse il problema nel domandare quando aveva un dubbio o una curiosità, non pensava di aver mancato di rispetto all’uomo, anzi ne sembrava divertito. E altre domande oltre questa si affollavano dentro la sua mente.. Per esempio.. perché il vecchio aveva con sé quel bastone tutto inciso? Perché ad ogni suo passo esso tintinnava? Perché la sua casa era così nascosta?

Ad ogni stimolo visivo e olfattivo altre domande le balenavano nella mente. L’uomo la osservava di sottecchi mentre chiacchierava sul prezzo della frutta  con la tata.

Lei si guardava intorno incuriosita. Anche questa grande casa era fornita di un ampio giardino che dava sul lungo fiume.

«Ti piacerebbe vedere il giardino?» le domandò il vecchio.

Per un istante Mavì si spaventò. Era forse capace di leggerle nel pensiero?

Poi scosse il capo per allontanare quella fantasia priva di fondamento e annui.

Lui le condusse verso la sala e la portafinestra. La sala era un ampia stanza priva di divani o poltrone. Un grande tappeto ricopriva la maggior parte del pavimento e su di esso si adagiavano cuscini coloratissimi e un tavolino in legno anch’esso dall’aria consumata come il tappeto. Ai muri erano appese molte maschere di forme e dimensioni diversissime.

“Avrei paura a dormire in una casa con così tanti occhi” pensò Mavì seguendo Yasmin e Babacar. Notò una nicchia nella sala colma di strumenti grandi e piccoli: erano tamburi. Tutti colorati e diversi nella misura. Uno in particolare attirò la sua attenzione. Era piccolo piccolo e sull’impugnatura, nel corpo del tamburino, vi era incisa una mezzaluna rossa. Chissà che suono produceva.

«Eccoci nel mio giardino» le diede il benvenuto l’uomo.

Più che un giardino era una selva. Gli alberi crescevano senza un ordine preciso e così i piccoli arbusti che Mavì non aveva mai visto. Il ciottolato era scomparso, tanto era consumato e proprio poco prima del muretto uno strano albero si ergeva solitario. Sotto di esso quattro piccoli cubi di pietra formavano un cerchio innaturale.

«Lì è dove accendiamo il fuoco d’estate per cucinare all’aperto..» le spiegò l’uomo «e quello che vedi invece è l’albero che arriva dalla mia terra, il baobab» disse indicando lo strano albero ramificato «vedi è ancora giovane, ma quando crescerà non ci sarà più spazio per altro.»

Mavì guardo le radici sporgenti e la strana pendenza del rami.

«Fiorisce?» chiese Mavì.

«I fiori si aprono solo la notte di luna piena» le rispose sorridendo Babacar.

La luce del giorno stava pian piano andando affievolendosi e il tramonto era alle porte. Il cielo si stava tingendo lentamente d’arancio e rosa e non aveva mai visto uno spettacolo così bello.

Babacar le invitò a rientrare e finire la tisana di zenzero prima di tornare a casa. Lui e la tata la precedettero e Mavì si voltò e osservò la grande casa dal retro, solo per vedere se assomigliava alla sua.

Anche da quella visuale poteva scorgere pochissimo della muratura, poiché era ricoperta di edera. Sembrava un abbraccio soffocante. Al centro della casa, poco sotto il tetto una luce era già accesa. Vide un corpo muoversi frettolosamente prima di spalancare la piccola finestra. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco la figura e la prima cosa che notò furono i capelli ricci e arruffati. Il viso di ragazzo e i denti bianchissimi in contrasto con la pelle scura.

ERA IL RAGAZZO DELL’INCHINO, QUELLO CHE L’AVEVA URTATA AL MERCATO.

Si ammutolì e per qualche istante lui la guardò stupito mentre sbatteva fuori dalla finestrella un lenzuolo rosso.

Fermò il movimento di braccia e appoggiandosi allo stipite la salutò con la mano. Il palmo era più chiaro rispetto al colore della sua pelle. Si meravigliò del suo sorriso spontaneo e arrossendo fino alla radice dei capelli rientrò di corsa nella casa, superò lo stranissimo salotto e si ritrovò proprio nel bel mezzo del congedo tra i due.

«Ah.. eccoti!» le disse Yasmin «pronta per andare?» Chiese.

Mavì annui di nuovo con il cuore in gola e pronta a scattare al minimo segnale dell’arrivo del ragazzo sconosciuto.

Solo quando fu’ vicino alla porta d’ingresso specchiandosi si ricordò del vestito che indossava e si mordicchiò il labbro inferocita per la pessima scelta.

Babacar le accompagnò al cancello di ferro battuto e nel voltarsi Mavì, nonostante il buio alle porte, scorse il ragazzo sulla porta che la guardava.

Babacar si voltò seguendo il suo sguardo e sorridendo disse «Qualche volta mio nipote manca di buona educazione..»

«Come si chiama?» chiese la ragazza.

«Dèè»

Pensò che aveva un bellissimo suono. Timidamente, mentre Babacar ritornava verso la porta d’ingresso e il Dèè si era alzato per aiutarlo a fare le scale, lei alzò la mano e lo salutò. Sperava l’avesse vista, nonostante la notte incombente.

La gatta bianca le seguì sino al confine tra la loro casa e quella del suo padrone e miagolò per salutarle.

Mentre Yasmin apriva il cancello la guardò e disse ridendo «E tu che pensavi d’annoiarti.»

Mavì non poteva che darle ragione mentre entravano in casa e il silenzio le accoglieva. Non si sentiva ancora a casa, ma le sembrava un rifugio migliore di quello di Dèè.

Decise di cercare Chandra, dopo aver cenato con il padre, e avrebbe mantenuto la sua promessa del pomeriggio. Avrebbe passato tutta la serata ad aspettare con lei in giardino l’uomo urlante, magari avrebbe potuto scorgere anche il suo strano vicino e suo nipote.

Continua….

 

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