lunaCapitolo 5

PRIMA LUNA

Chandra l’attendeva sulla soglia della portafinestra della sala. Mavì prese il maglioncino per evitare ulteriori guai nel caso l’avessero scoperta.
La gatta la guardò mentre indossava l’indumento a suo avviso inutile e aspettò che la ragazzina, con i suoi comodi, prendesse la torcia portatile e aprisse loro la via di fuga. Stette bene attenta a non fare nessun miagolio infastidito e neppure mosse un baffo. Appena la portafinestra scivolò silenziosa sul suo binario lei svisciolò fuori precedendo Mavì.
Non poteva accendere nessuna luce esterna. Così tirò su il cappuccio del maglioncino leggero e quando fu  lontana dalle finestre della tata e del padre accese la torcia puntandola per terra. Quel tanto che bastava a distinguere i buchi dai ciottoli e da non inciampare nei vasi o nelle piante. Lei e la sua compagna felina si diressero verso il muretto. Dove la luce era più forte per via dei lampioni. Si avventurarono sotto l’albero con la chioma più folta, proprio quello più vicino al confine con il giardino dello strano e vecchio Babacar, e il loro. Si arroccarono sul muretto e seminascoste osservarono il lungo fiume e la passeggiata completamente vuota. Erano solo le undici quando scorse la luna fare capolino dietro a delle nuvole innaturalmente chiare. Il suo corpo di solito pieno era raggrinzito sin quasi al limite. Una piccola falce di luna illuminava ben poco di quello che avevano intorno. I suoi raggi chiari non penetravano neppure tra le foglie spesse sopra le loro teste.
Spense immediatamente la torcia al fruscio che sentì dietro di sé e rimase immobile.
Qualcosa di morbido le si appoggiava sulla schiena. Aldilà della rete fitta e verde. Aveva paura potesse essere un topo, o quel temibile essere che è la nutria, animale obbrobrioso e leggendario di cui gli aveva parlato Yasmin. A sua detta “Un topo gigante con i denti di un leone e la coda di un serpente velenoso.” Mavì era andata a cercare l’immagine della nutria in un enciclopedia vecchia come suo padre e suo nonno messi insieme, ma aveva trovato solo un piccolo essere che non sapeva se essere un topo o un castoro. Certo la coda era un pochetto stonata con il muso carino, ma nessuno era perfetto, no?
Lentamente voltò il capo e un musetto curioso sbucò dall’altra parte. Il naso roseo e i baffi folti. Gli occhi incredibilmente verdi e brillanti. Era Vêre, la gatta di Babacar. Per un attimo le due gatte si scrutarono con intensità tant’è che Mavì ebbe paura si azzuffassero, invece Chandra si avvicinò alla loro vicina e le diede un colpetto con la zampetta senza tirar fuori gli artigli affilati.
Vêre rispose al buffetto con un miagolio giocoso e così le tre stettero sedute a godersi la serata. Mavì guardò l’ora sul suo orologio di plastica rosso e notò che mancavano dieci minuti alla mezzanotte.
Mentre stavano li appostate in attesa, dei ragazzi passarono sotto di loro. Fumavano qualcosa che aveva uno strano odore e se la passavano a rotazione, la musica pop sparata a tutto volume dalla piccola cassa del telefonino rendeva irrequiete le due gatte e infastidiva terribilmente Mavì.
Per fortuna si allontanarono velocemente, con gli zaini svogliatamente sostenuti dalle spalle incurvate e i cappucci tirati su.
«Di certo spero di non diventare come loro tra qualche anno..» disse una voce al suo orecchio. E lei per poco non cadde dal muretto per lo spavento.
Si voltò di scatto e degli occhi color d’ambra la fissavano ridendo.
«Non farlo mai più!» protestò Mavì con il cuore ancora in gola.
Dèè si sistemò alla belle meglio sulla sua parte di muretto e per tenersi strinse forte la rete all’altezza del suo volto. Non rispose, ma fissò intensamente davanti a sé, come a riflettere su qualcosa di estrema importanza.
«Che ci fai qui tutta sola a quest’ora della notte?» le chiese serio.
Mavì non sapeva se essere sincera o meno, magari l’avrebbe presa per pazza. Ci pensò per qualche secondo e poi rispose «non riuscivo a dormire e così ho deciso di tener compagnia a Chandra, la mia gatta» e per pizzicarlo disse «e tu non dovresti essere già a letto?»
«Da un anno esco la notte, il nonno lo sa, ma non dice niente» sogghignò come se fosse libero, molto più libero di lei.
«Scommetto che tuo padre e tua madre non lo sanno che sei fuori» la stuzzicò ridacchiando.
«Tu non sai nulla» rispose rabbiosa Mavì.
Il ragazzo intuì che aveva detto qualcosa di sbagliato o fuori luogo e così cercò di scusarsi. Allungò la mano e carezzò delicatamente Chandra. La grattò dietro la collottola e le massaggiò la spina dorsale.
Chandra ovviamente apprezzò quelle coccole gratuite e, da ruffiana quale era, non mancò di mordicchiargli teneramente le dita.
«Vuoi vedere qualcosa di unico?» le domandò di nuovo assorto nei suoi pensieri.
«Dubito che sia qualcosa che non abbia mai visto» rispose Mavì facendo finta di essere quella che non era.
«Sicura?» le chiese sorridendo.
Mavì lo guardò negli occhi e per un secondo pensò che quella certezza che vi vedeva non era di buon auspicio.
«Devi essere coraggiosa, molto coraggiosa» sussurrò mentre si alzava dal muretto e superava d’altezza la rete. Lei inclinò il capo quasi fino a farsi male e lo guardò dal basso. I suoi denti bianchi brillavano nella notte, come se volessero sfidarla.
«Riesci a scavalcare?» le domandò ritornando serio.
Mavì non se lo fece ripetere due volte e con agilità scavalcò la rete e si ritrovò esattamente di fronte a lui senza neppure un graffio.
«Ottimo!» rise lui e le fece cenno di seguirlo. Anche Chandra aveva aggirato la rete e le due gatte, una vicina all’altra, fissarono  i due giovani allontanarsi di soppiatto come dei ladri.
“Non capivano questi strani umani senza neppure un pelo.

Capito 6

IL FIUME E LE SUE CREATURE

Delle campane risuonavano nella notte mentre i due ragazzi scendevano delle scalette buie.
Dèè aveva spostato una piccola trave di legno e l’aveva invitata a scendervi. Mavì aveva avuto paura per un istante, ma lo sguardo di sfida del suo nuovo amico l’aveva resa coraggiosa solo per dispetto. D’altra parte non portava più la gonna e i movimenti le erano più facili con la sua tuta preferita.
«É mezzanotte..» sussurrò nell’oscurità Dèè e Mavì si ricordò di avere con se la torcia, ma proprio quando stava per accenderla il ragazzo la prese per il polso.
«Dove stiamo andando?» domandò Mavì sempre più titubante.
Le scale finirono e l’odore di pietra umida era ormai tutt’intorno a loro. Appoggiando il palmo al muro sentì qualcosa di bagnato e morbido. Era muschio.
Dèè si volto verso di lei e solo per un attimo i suoi occhi risplendettero sotto la falce di luna.
«Questa apertura l’ha fatta il nonno..» rivelò Dèè «ma non ne avevo capito il motivo, fino all’inizio dell’estate.»
Quale apertura? Si domandò Mavì. Prima che potesse tradurre in parole la sua domanda Dèè infilò le mani in una nicchia invisibile nel muro e girò qualcosa, forse una manopola e una fessura si aprì.
Mavì ebbe un sobbalzo e cercò di scrutare aldilà delle spalle del ragazzo.
Una porticina si apriva lentamente, ma verso cosa Mavì non sapeva poiché era tutto coperto da edera foltissima.
Dèè le fece cenno di fare silenzio e di seguirlo mentre si faceva strada tra la vegetazione a cascata.
Lei si tuffò dietro di lui e vide due code dal colore opposto precederli in quella selva oscura.
Superato il momento d’incognito scorse le spalle del ragazzo.
«Vieni..» sussurrò facendole cenno di avanzare.
E quando arrivò vicino a lui la tirò giù.
Davanti a loro il lungo fiume si diramava come un serpente solitario.
«Dov’è questa cosa straordinaria che volevi mostrarmi?» domandò sarcastica Mavì.
«Shhh!» le intimò Dèè «seguimi..» continuò strisciando velocemente verso le scalinate in pietra che li avrebbero condotti ancora più giù, proprio al fianco del fiume. Lei lo seguì e vide le gatte già intente a passeggiare proprio sotto di loro. Con un balzo i due felini scomparvero tra le folte piante sulla riva del Po.
La situazione stava diventando sempre più strana. Perché le due gatte erano così affiatate da addentrarsi lì sole?
Giunti sotto, Dèè le prese la mano e posandosi un dito sulle labbra le fece intendere che doveva tacere.
Era una serata estiva e il lungo fiume era deserto. Come se in tutta la città non vi fosse anima viva.
Dèè la condusse sul piccolo sentiero che avevano preso le gatte e mano nella mano scesero ancora di più avvolti dalle piante rigogliose. Il buio si fece pregnante, se non per quei fini raggi di luna che riuscivano ad attraversare il garbuglio di rami e foglie.
Le spalle del suo nuovo amico le indicavano la via, dove appoggiare il piede e dove non farlo.
Le loro mani unite in quell’abbraccio, sconosciuto per lei, la agitavano. Sentiva delle piccole gocce di sudore formarsi tra le dita e sul suo palmo, rendendolo scivoloso. E percepiva di essere più calda, come se avesse un principio di febbre.
Gli occhi di Dèè comparvero nella sua visuale e lui si accucciò davanti a lei, trascinandola vicina a sé.
«Guarda..» le disse sorridendo titubante, forse per la sua reazione.
Nascosta dietro dei sassi, Mavì poté assistere alla scena più strana e meravigliosa a cui avesse mai preso parte.
Sopra di loro, dal grande acero cadevano delle foglie simili ad ali, o meglio ad eliche, che frullavano nel cielo. Si libravano nell’aria notturna come farfalle fatte di scorza di legno.
Ma non era quella cascata di fiori a meravigliarla, ma la loro trasformazione. Nel mezzo del loro volo, come in una danza caotica, quelle strane foglie facevano la muta e si trasformavano in esseri  vivi e vegeti. Non riuscì a scorgersi bene sino a quando non iniziarono a planare verso il piccolo cerchio d’erba poco più in là rispetto ai massi dietro cui erano accucciati.
Li vide scendere e spostarsi velocemente in un frullio di ali scure. Si voltò verso Dèè con gli occhi sgranati e un sorriso le si formò spontaneamente sul viso.
Non voleva in nessun modo rovinare la magia di quel momento facendosi sentire e così continuò ad osservarli da lontano.
Quegli strani esseri si radunarono in un piccolo spazio libero da vegetazione, per loro doveva essere una sorta di radura e iniziarono a parlare in una lingua stranissima e sconosciuta. Si toccavano e producevano uno strano suono stridente, come se ridessero e giocassero tra di loro.
Il loro corpo, dalla forma vagamente umana, era interamente fatto di legno chiaro, anche le ali, nonostante la loro trasparenza, sembravano fatte di carta velina ricavata dal legno.
Mavì vide qualcosa brillare di fronte a loro, nel folto opposto. Erano occhi che scintillavano nel buio. Occhi allungati di gatto.
Chandra e Vêre con delicatezza uscirono dai loro nascondigli e vennero accolte dagli strani esseri con allegria.
«E voi che cosa fate nascosti qui dietro?» chiese una voce sibillina al suo orecchio destro.
Mavì fece un balzo e urtò Dèè che cadde in mezzo alla fanghiglia del fiume.
«Che cavolo!» esclamò il ragazzo completamente zuppo.
Mavì non mosse un muscolo e vide comparire davanti al suo naso uno degli strani esseri che stavano osservando.
Urlò e Dèè si lanciò su di lei e le tappò la bocca con entrambe le mani.
«Se urlerai li spaventerai scema!» le disse sussurrando.
Lei annui e attese che il ragazzo togliesse le mani dalla sua faccia. Era rossa e furiosa. Rossa e spaventata.
L’essere che le aveva parlato ronzava intorno a loro senza dar segno di alcuna paura.
«Certo che voi umani siete strani!» sentenziò l’omino di legno.
«Ciao Fazì» disse Dèè «lei è la mia nuova vicina di casa, ma è un po’ fifona» aggiunse sogghignando.
Fazì chiese come si chiamava.
Mavì rispose educatamente, non senza prima lanciare un occhiata di fuoco a Dèè che l’aveva caricata di timore «mi chiamo Mavì, piacere di conoscerti.»
Il piccolo essere le fece un inchino e li invitò a raggiungere i suoi compagni nella loro piccola radura.
Gli altri esseri la scrutarono in silenzio per poi saltarle addosso e toccarla, pizzicarla e osservarla scrupolosamente. Da così vicino Mavì poté osservare ancora meglio le loro ali. Erano trasparenti e piene di venature luminose. Come se nelle loro vene scorresse linfa e non sangue. Era affascinata da loro e rise per i loro dispetti. Le gatte riposavano silenziose e Dèè la guardava ridere sorridendole.
«Loro sono i custodi del fiume.» la informò solennemente.
«Perché?» domandò «il fiume ha bisogno d’essere custodito?»
Uno dei custodi di legno, dall’aspetto più consumato degli altri e con un bastone tra le dita ramificate, le si avvicinò.
«Piccola umana vuoi sentire una storia?» le chiese.
Dèè le tirò una gomitata senza farsi vedere e lei si sedette davanti a quello che doveva essere il loro saggio.
Annuì senza trovare le parole adatte e a quel gesto tutti gli altri esseri si sedettero. Chi tra i rametti degli arbusti, chi sulla radura, chi sui sassi e chi sulle loro spalle.
Il saggio raccontò loro che molto tempo addietro aveva una figlia, dai colori caldi e dotata del potere di far fiorire i fiori di notte, il suo nome era Sehara. Essa era come loro, una custode del fiume, finché non si innamorò di un umano. Un pittore. Che l’aveva vista e aveva preso a cercarla per farne i suoi ritratti. Una notte lei aveva chiesto alla luna di trasformarla in un umana per poter stare con lui. Essa l’accontentò a condizione che ogni notte di luna piena lei tornasse a lei e le tenesse compagnia. Sehara accettò, ma dovette mantenere il segreto, anche con i suoi compagni e suo padre. Così una notte successe l’inaspettato e loro non riuscirono a salvarla perché era il giorno di luna piena ed era l’unica notte in cui la loro trasformazione non poteva avvenire per il tabù che era loro imposto. Così la persero e non passava giorno in cui non rimpiangessero quel gesto folle.
Il saggio con la voce tremante alzò il bastone e colpendo tre volte il terreno si schiarì la voce tremante. Mosse delicatamente le ali e da esse fuoriuscì una nebbiolina lucente che si depositò intorno a loro. Rendendo tutto più chiaro.
«il fiume racconterà il resto della sua storia se tu saprai guardare oltre le sue nebbie.»
Mavì sgranò gli occhi e sentì la mano di Dèè toccare la sua come a rassicurarla.
La nebbiolina si condensò come fumo e prese le sembianze di un uomo e una donna abbracciati in un tenero gesto d’amore. Ma qualcosa turbava quella scena. Qualcosa di oscuro che nasceva come un fiore maligno al loro fianco. Qualcosa di simile a dei topi, ma più imponenti e meno reali.
Dei ratti di nebbia, dalla lunga coda, separarono gli amanti e legarono la donna dentro una gabbia di code.
Lei cercava di liberarsi divincolandosi. E in alto, spendeva una luna piena, simile ad un melograno maturo. L’uomo tentava d’avvicinarsi, ma più ci provava più la luna diventava grande, più cercava di separarli.
La donna pianse e i ratti squittirono e risero.
Mavì tremava per la tensione. Voleva che quella pena finisse.
La donna tese un braccio verso la luna ed essa esplose. La nebbia si trasformò in un turbinio caotico. Danzò forsennatamente e poco alla volta la scena si condensò in forme famigliari.
La donna era diventata una fata di legno, come quelli che la circondavano in quel momento, e lei per sfuggire alla gabbia dei ratti si staccò le ali. Era il pegno che doveva pagare alla luna per essere libera e senz’ali pian piano si frantumò sino a diventare polvere. Una folata di nebbia la sollevò, o meglio sollevò quello che rimaneva di lei, e le eliche che erano le ali andarono verso la luna.
Poco più in là il suo amante aveva assistito alla scena ed era caduto per terra, inginocchiato si disperava e con il passare del tempo era impazzito. Le unghie erano cresciute, i capelli erano diventati grigi con delle striature di bianco e i suoi vestiti si erano logorati e bucati.
Urlava disperato, correndo, camminando e poi di nuovo la nebbiolina si fece caotica e comparve una scena il cui personaggio le era famigliare.
Quello stesso uomo che era impazzito non urlava, ma disegnava. Disegnava donne senza volto. In continuazione. E quando le stagioni passavano e passavano lui continuava ad urlare alla luna.
Solo la notte in cui era piena sedeva silente sul limitare del fiume e la guardava con gli occhi pieni di lacrime senza ricordarsi perché provava quella grande sofferenza.
Tutto finì in un lampo e la nebbia fitta ritornò come assorbita dai tre colpi di bastone del saggio di legno.
«Piccola umana, ora hai capito di cosa siamo custodi?» chiese a lei.
«Siete custodi di questa storia?» chiese per poi domandare «quell’uomo.. è forse l’uomo urlante che ho visto sul lungofiume?»
Non rispose il saggio, ma Dèè.
«Si.»
Mavì pensò velocemente.
Lei voleva fare qualcosa, voleva aiutarlo. Forse era per questo che le aveva riconosciute quel giorno.
Era perché sapeva che loro avrebbero scoperto la sua storia.
«Dèè..» disse Mavì «come possiamo aiutarlo?» chiese.
«Ho aspettato questa sera perché me lo rivelassero loro» confessò lui.
«Fazì vieni qui..» ordinò il vecchio saggio al loro nuovo amico.
Fazì saetto verso di loro e guardò il saggio aspettando istruzioni.
«Tu li aiuterai questa notte a ritrovare quello che cercano. Devi star loro vicino mentre saranno alla ricerca del primo ritratto che è stato fatto alla nostra Sehara» sentenziò.
Ma dove lo avrebbero trovato? E a cosa sarebbe servito? Si domandò Mavì.
Fazì annui e si voltò sorridente verso di loro. Non aveva denti, ma piccole radici che sbucavano dall’apertura che doveva essere la loro bocca. Gli occhi erano come quelli degli insetti. Due piccole pepite nere brillanti.
Il saggio li congedò con una frase a cui Dèè non diede molta importanza eppure Mavì continuava a ripetersela in testa senza saperne il motivo, e diceva:
«La sapienza è come un baobab: con due sole braccia non puoi stringerlo tutto.»

Capitolo 7

LA LACRIMA DI LUNA

Fazì si librò veloce intorno a loro. Saettava senza sosta e chiacchierava animatamente con Dèè.
Risalirono velocemente dal sentiero e il suo compagno d’avventura, notò lei, aveva chiazze qua e là sui vestiti. Ricordò d’averlo urtato senza volerlo e sorrise stupefatta per quello che le stava accadendo.
Chandra le si strofinò contro le gambe e per poco lei non inciampò.
«Dèè» lo richiamò per fargli la domanda fatidica «ma noi cosa stiamo cercando?»
Lui si voltò verso di lei. E avvicinandosi tirò fuori dalla tasca qualcosa di minuscolo. Una pietra perlacea giaceva nel suo palmo e ad ogni movimento risplendeva d’un azzurro intenso.
Lei lo guardò interrogativa. Non capiva come una pietra potesse aiutarli.
«Questa pietra si chiama Adularia e l’ho trovata tra le radici del Baobab del nonno» le spiegò con un cipiglio misterioso.
«Come fai a sapere che cos’è?»
«Sono andato a cercarla nel libro del nonno» le spiegò Dèè «mio nonno aiuta le persone usando anche le pietre oltre che la magia.»
«Vuoi dire che tuo nonno è uno stregone?» domandò Mavì incredula.
«Ci puoi scommettere, il discendente di una lunga stirpe di stregoni del Senegal» sembrava orgoglioso, come se fosse un onorificenza.
«Tu l’hai visto, no?» le domandò come se bastasse la sua presenza a spiegare tutto con semplicità.
«Si.. si l’ho visto, ma..» Mavì incespicò nelle sue stesse parole. Come poteva spiegare la sensazione provata? Quel misto di fascino e paura che aveva percepito quando le aveva chiesto lo zenzero. La sua bambola di zenzero. E le sue strane maschere, il Baobab e quel cerchio di pietre.. Non avevano fatto altro se non aumentare le sue domande.
«L’uomo urlante, Cosimo, quello di cui parlava il vecchio saggio.. Vedi ho iniziato ad interessarmi a lui perché ogni giorno di luna piena viene a trovare mio nonno» iniziò a raccontarle «ed è l’unico giorno in cui l’ho visto che non urlava.. si sedeva vicino a mio nonno, fuori, sotto il Baobab e disegnava e disegnava mentre mio nonno lo osservava e lo consolava» per un istante Dèè deglutì e riprese a raccontarle tutta la storia.
«Il mese scorso, incuriosito da questa ricorrenza sono andato a vedere che cosa era rimasto del loro incontro e ho visto fogli bruciare in mezzo al cerchio di pietre sotto il Baobab. Una era sfuggita al fuoco. Quando ho girato il foglio ho visto il disegno che ritraeva una donna, ma il volto non c’era. Come se al posto degli occhi e del naso non vi fosse altro se non il vuoto.» Il ragazzo prese un respiro mentre stringeva la pietra azzurrognola.
«E poi?» domandò Mavì impaziente.
«Una notte in cui la luna era solo uno spicchio, come questa, solo calante. Ho visto mio nonno dirigersi verso il lungo fiume dalla scala segreta che abbiamo usato noi e l’ho seguito senza farmi scoprire. Lui è andato da loro. Capisci?» domandò più a se stesso che a Mavì.
«Dai custodi?» chiese lei.
«Si. E l’ho sentito domandargli come poteva aiutare Cosimo senza incorrere nelle ire dei ratti del fiume o in quelle della luna.»
«E loro cosa hanno risposto?»
«Che solo un animo puro poteva sapere la risposta e che le lacrime della luna avrebbero indicato a chi ne era degno la via per aiutare quel folle.»
Mavì guardò la pietra che il ragazzo teneva in mano. Sembrava una lacrima.
«Come hai fatto a trovarla?» chiese Mavì.
Fazì interruppe la loro conversazione animata frapponendosi tra di loro.
«Perché l’ho nascosta io!» dichiarò orgoglioso.
Mavì era senza parole.
Come potevano utilizzare la pietra? Trasformò in parole il suo dubbio e la pronta risposta di Dèè la lasciò incredula.
«Ecco perché ti ho invitata sta sera, sei tu l’animo puro.» sentenziò poggiandole la pietra tiepida sul palmo della mano.
«Io?» domandò «io proprio no..» ma proprio mentre stava per ridare la pietra a Dèè essa iniziò a pulsare e l’azzurro si fece ancora più intenso.
«Funziona Fazì!» esultò saltellando il ragazzo e il piccolo custode prese a ronzarle intorno in una danza euforica.
Dall’adularia un raggio azzurro iniziò a saettare verso la parte alta del lungo fiume e Dèè afferrò la sua mano e iniziò a correre a perdifiato verso le scale.
«Andiamo!» disse prima di trascinarla dietro di sé.
La pietra pulsava e continuava a diffondere quel raggio azzurro e ad indicargli la strada. Corsero per qualche minuto e infine giunsero davanti ad un albero grosso e scuro con il tronco pieno di tagli. Sembrava che avessero inciso sulla sua corteccia con lame di coltello o artigli molto affilati.
Quando il raggio azzurro si eclissò, nonostante fosse una calda notte d’estate, anche il caldo sembrò assorbito dalla piccola lacrima che teneva nella mano.
Si avvicinarono verso il tronco e Dèè allungò una mano verso di esso.
Fazì tremava dietro di loro.
«Perché hai così tanta paura Fazì?» chiese Mavì.
«Perché questo è l’albero dei ratti d’ombra i nostri cacciatori naturali» sussurrò con voce tremante.
«E dove sono in questo momento?» chiese Dèè spaventato all’idea che potessero sbucare da un momento all’altro.
«Sono dormienti, si svegliano solo durante la notte di luna piena..» rivelò loro «se toccherete l’albero il vostro odore rimarrà impresso e loro vi daranno la caccia.»
Entrambi rabbrividirono e ne furono spaventati, ma non avevano scelta. Dovevano capire che cosa si celava dietro a quella corteccia malmessa.
Mavì si avvicinò a Dèè ed entrambi presero a staccare quel pezzo di corteccia che pendeva da un lato dell’albero. Delicatamente rimossero la guaina legnosa e quando la rigirarono tra le mani scorsero un volto femminile inciso nella sua parte interna, quella liscia e chiara.
Era il volto di una donna bellissima, dagli occhi grandi e colmi di felicità. Il suo viso era a forma di cuore e la bocca era piegata in un sorriso diretto a qualcuno. Probabilmente a chi le stava facendo il ritratto.
I due ragazzi si guardarono entusiasti e si dimenticarono completamente dell’avvertimento del loro aiutante, il piccolo custode del fiume.
Dèè con la corteccia in mano e Mavì con la pietra in tasca si avviarono verso la scalinata che li avrebbe ricondotti verso casa.
«Ora che avete il ritratto non dovete far altro che farlo vedere al pittore e la sua memoria tornerà e la maledizione cesserà d’esistere..» disse Fazì.
«Dovremo solo mostrarglielo domani?» chiese Mavì.
«Si.. proprio poco dopo che la luna piena sarà ardente nel cielo buio» li informò «ma ricordatevi dei ratti d’ombra. Perché loro saranno in agguato e cercheranno in tutti i modi di impedirvelo.»
«Perché Fazì?» chiese Dèè.
«Voi avete violato il loro albero e state cercando di spezzare la maledizione che loro hanno aiutato a creare» e poi continuò spiegando loro quanto fosse forte la faida tra i ratti e i custodi e di come loro avessero cercato di privarli della cosa più preziosa e bella che avessero: Sehara.
Fazì fece loro un profondo inchino e li avvertì di custodire l’adularia e di farsi forza perché la notte successiva loro, i custodi, non avrebbero potuto aiutarli in nessun modo.
Mavì e Dèè si guardarono e capirono di avere una missione che forse andava aldilà delle loro forze.
«Domani parlerò con il nonno..» le disse mentre risalivano gli scalini bui verso il giardino di Dèè.
«Pensi che ci aiuterà?» chiese lei titubante.
«Si, se conosco bene il nonno farà di tutto per darci una mano.» La fiducia che ardeva in lui era molto più di quella che lei poteva dire di provare nei confronti di suo padre.
Lei non avrebbe raccontato nulla, non l’avrebbero creduta.
Così i due si separarono con gli occhi colmi di speranza e paura e le due gatte, Chandra e Vêre, seguirono scodinzolando i rispettivi padroni verso le grandi case con le luci spente.
Mavì, mentre rientrava silenziosamente in casa, teneva stretta la pietra nella tasca e cercava di riordinare i pensieri di quella notte magnifica. Cercava di fare ordine tra le informazioni e le scoperte sconvolgente che aveva fatto in così poche ore.
Per la paura che fosse solo un sogno scrutò, arrivata in camera con Chandra, il lungo fiume e vide danzare le foglie ad elica ed illuminare fugacemente la notte buia. La luna, nel suo spicchio affilato, nascondeva molti segreti e forse quel trasferimento, pensò, non le dispiaceva affatto.
Si addormentò appena toccò il materasso morbido e la gatta le si adagiò dolcemente nell’incavo delle gambe scrutando con interesse la pietra azzurra che riluceva sul davanzale interno della finestra della sua piccola umana.

capitolo 8

LUNA PIENA

La giornata passò così in fretta che Mavì non fece in tempo neppure a prepararsi alla notte che l’attendeva.
Quando la sera si apprestò a farsi buio lei uscì di soppiatto dalla portafinestra con Chandra alle calcagna. Trovò Dèè che l’attendeva nello stesso posto della sera precedente.
Non le disse nulla, era molto serio, e la condusse verso la portafinestra della casa del nonno.
«Non aver paura..» le sussurrò all’orecchio mentre varcavano la soglia che li avrebbe condotti nel salotto di Babacar.
Quando vi entrarono una luce gialla e tiepida illuminava le maschere dal basso creando giochi d’ombra che le fecero accapponare la pelle.
«Accomodatevi.. prego» le invitò la voce profonda dell’uomo che lei conosceva come Babacar.
Il suo invito era rivolto sia a lei che alla sua gatta. Chandra non fece complimenti e andò a mordicchiare l’orecchio della gatta del padrone di casa. Leccò il suo muso serio e le si accoccolò di fianco.
Che ruffiana, pensò Mavì. Ruffiana e senza vergogna, aggiunse guardandola come se la stesse tradendo. La gatta aprì le fauci in uno sbadiglio divertito. Lo sbadiglio che molte volte avevano condiviso.
Mavì si sedette sui cuscini al fianco di Dèè e cercò di farsi più piccola che poteva.
«Mio nipote mi ha raccontato tutto..» disse «come vi è stato spiegato, e come io ho spiegato a Dèè io non potrò essere coinvolto direttamente in quello che succederà, ma sappiate che vi sono vicino e farò in modo che non vi succeda nulla» poi rivolgendosi a lei disse «Non vogliamo creare inutili preoccupazioni a tuo padre.»
«Mio padre non si preoccupa per me può starne certo!» si lasciò sfuggire prima che fosse troppo tardi.
Entrambi la guardarono, ma il nonno la scrutò con negli occhi qualcosa di diverso, qualcosa che assomigliava alla compassione e lei non lo sopportò.
Per far finire quel momento dolente chiese come avrebbero dovuto fare e il nonno di Dèè spiegò loro cosa sarebbe successo all’arrivo dell’ospite che attendevano.
«Tra qualche minuto arriverà Cosimo e io lo porterò al cerchio di pietre sotto il Baobab come di consueto.. Chiederò lui di provare a disegnare il suo malessere e cercherò in qualche modo di alleviare quel peso che ha nel cuore. Come voi ben sapete lui non ricorda nulla di quello che è successo. Siete solo voi i custodi di questo ricordo e come tali..» disse guardandoli negli occhi intensamente «dovrete consegnare a lui il dono che vi hanno fatto gli esseri fatati del fiume.»
«E cosa succederà?» domandò Dèè che era sempre alla ricerca di riposte.
«Quando gli verrà fatto il dono, Cosimo ritroverà quello che ha perso, come in quella notte di tanti anni fa.»
Il campanello suonò e così si decretò la fine della loro riunione.
Cosimo era ritto sulla soglia della porta e loro poterono vederlo avanzare con i suoi abiti a brandelli verso la portafinestra con i blocchi di fogli stretti nella mano consumata. Dietro l’orecchio sbucava un carboncino dall’aria consunta e sporca. Babacar lo accompagnò verso il cerchio di pietre dove era solito interrogarlo e consolarlo.
La notte si faceva sempre più buia e la luna piena compariva ad intermittenza quando le nuvole notturne si facevano più veloci nel loro passaggio.
Mavì guardò Dèè e si domandò quando sarebbe stato il momento adatto. Attesero per quasi un ora, finché Babacar non rientrò e disse loro di procedere con un cenno secco del capo.
I due ragazzi avanzarono verso il giardino e proprio quando stavano per raggiungere Cosimo qualcosa uscì dalla folta vegetazione con un balzo feroce.
Erano i ratti d’ombra. Avevano lunghi artigli sporchi e baffi spessi e increspati. Dalle loro fauci usciva qualcosa di simile a bava verdastra e i denti erano sudici e grandi, ma la cosa che più colpiva di loro aldilà della stazza erano le code. Avevano lunghe code simili a fruste che dimenavano forsennatamente smuovendo il terreno e i sassi che si trovavano sulla loro traiettoria.
I due ragazzi non potevano muovere un solo muscolo.
«E adesso?» si domandarono all’unisono.
Cosimo sembrava completamente dimentico e assente alla situazione surreale che si svolgeva poco dietro di lui e continuava a disegnare, scrutando di tanto in tanto la luna.
Proprio quando i ratti d’ombra stavano per attaccare Chandra e Vêre si frapposero tra di loro e i ragazzi e iniziarono a soffiare con furia omicida. Il loro pelo era ritto e le fauci aperte.
I mostri cercarono di avvicinarsi aggirando i due felini, ma come muovevano un passo così loro di rimando mantenevano la distanza.
«Corriamo!» le sussurrò Dèè all’orecchio e così iniziarono a correre a perdifiato verso il cerchio di pietre. I ratti d’ombra balzarono immediatamente alle loro calcagna, ma una voce si levò nel buio.
Il nonno di Dèè pronunciava parole incomprensibili nella sua lingua madre, il Wolof.
Le due gatte presero a dimenarsi e il loro corpo tramutò in qualcosa che mai prima di allora avevano visto. I muscoli si ingrossarono, così i loro musi e i loro artigli sino a raggiungere la stazza di un cane adulto e forte.
Attaccarono i ratti d’ombra durante l’inseguimento e così permisero a Mavì e Dèè di arrivare al pittore.
La bolla in cui si era rifugiato esplose e proprio sotto i suoi occhi comparve il disegno che avevano ritrovato sotto la corteccia.
L’uomo osservò attentamente il disegno e sgranò gli occhi come se stesse assistendo allo stesso dolore provato molti anni prima. Strappò di mano la corteccia a Dèè e la strinse.
Il ragazzo cadde a terra e Mavì cercò di aiutarlo, mentre dietro di loro imperversava la lotta tra ratti e gatti. Babacar stava lì immobile con il bastone ben ritto in mano e osservava la scena sorridendo a denti scoperti.
«E ora?» chiese Mavì.
«Butta l’adularia! Fai in modo che si rompa!» le intimò Dèè.
Mavì prese la lacrima di luna e con tutta la forza che aveva la lanciò verso una delle pietre del cerchio. Esplose in mille pezzi e da essa fuoriuscì un essere di legno, come i custodi che avevano incontrato la notte precedente, ma era Sehara.
Tutto il trambusto cessò e la luna fece capolino dalle nuvole chiare.
Babacar era scomparso, così i gatti e anche i ratti d’ombra. Rimanevano solo il pittore e la piccola fata di legno che si guardavano riconoscendosi.
Mavì e Dèè non potevano fare nulla se non stare lì impalati a osservare la scena, ammutoliti davanti alla luminosa maestosità della gigantesca luna piena che stava dietro il grande Baobab.
I due amanti andarono verso il tronco dell’albero e cercarono invano di avvolgerne tutta la circonferenza con le loro braccia, come nel tentativo di ricongiungersi.
Solo a quel punto Mavì capì la frase del vecchio saggio e trascinando Dèè si aggiunsero a quel tentativo folle di riuscire ad abbracciare tutto il tronco in modo tale che i due potessero essere uniti attraverso di loro.
Quando le mani di tutti e quattro si toccarono e strinsero ci fu un secondo in cui il silenzio fu assoluto. Un silenzio innaturale. Solo la luna sembrava emettere uno strano lamento, come il suono delle maree. Il fiume era agitato e con esso tutti i suoi abitanti.
Mavì e Dèè aprirono gli occhi dopo essere stati abbagliati dai raggi accecanti della luna e videro che sia Cosimo che Sehara erano scomparsi nel nulla. Solo due lacrime di luna erano rimaste a ricordare il loro amore. Erano incastonate nel tronco del Baobab.
I due ragazzi alzarono il viso verso le fronde dell’albero imponente e videro che i suoi fiori erano bianchi e aperti ad accogliere quanti più raggi potevano prima che la notte terminasse.
Miagolando Chandra e Vêre si avvicinarono a loro e sbadigliarono decretando la fine delle loro avventure notturne.
«E così siete riusciti a spezzare la maledizione..» disse Babacar ridendo e avanzando verso di loro.
«Così sembrerebbe..» rispose Dèè.
«Ed è tutto merito della fifona che è in me!» aggiunse Mavì mentre si dirigevano verso il salotto del nonno, con la consapevolezza che aveva due amici in più e ancora un’estate davanti a sé per potersi cacciare in altri guai.

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