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È visitabile sino al 24 dicembre la personale di Ted Larsen (South Haven -Michigan, 1964) presso la galleria Privateview di via Goito 16: la personale di Torino è anche anteprima europea per l’artista statunitense, la cui ricerca affonda le radici nella lezione del Modernismo e del Minimalismo americano (da Donald Judd a Frank Stella a John McCracken, a cui il Castello di Rivoli aveva dedicato una personale nel 2011).
Le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private e in diverse istituzioni museali internazionali, tra cui il New Mexico Museum of Art di Santa Fe e l’Edward F. Albee Foundation di New York. Per questo solo show, terza mostra per la galleria di Silvia Borella e Mauro Piredda inaugurata lo scorso maggio, Ted Larsen ha studiato accuratamente l’allestimento e realizzato un’installazione site-specific di grande impatto visivo che accoglie i visitatori nello spazio della galleria, in parallelo a quella realizzata per il Visual Art Center del New Jersey, dove è attualmente in corso una sua personale. 
Il lavoro di Larsen, la cui tecnica si avvale di una raffinata capacità manuale applicata a materiali di recupero in equilibrio tra pittura, ready-made e scultura astratta, prende le distanze da tutto ciò che afferisce a precisi significati, implicazioni didascaliche o speculazioni analitiche: le sue opere, scultoree e pittoriche allo stesso tempo, sono strettamente legate, nel loro significato ultimo, alla pura esperienza visiva ed esperienziale data dell’oggetto in se stesso. Forma-colore-linea-composizione diventano nelle sue opere elementi attentamente calibrati e sono collocati nello spazio con estremo rigore e, come tali, offerti all’occhio dello spettatore privi di preconcetti, ma piuttosto invitandolo ad una lettura estetica quanto più personale e interiorizzata.

le sue opere, scultoree e pittoriche allo stesso tempo, sono strettamente legate, nel loro significato ultimo, alla pura esperienza visiva ed esperienziale data dell’oggetto in se stesso

Innegabili i rimandi al Modernismo, al Minimalismo e persino al Cubismo, trasformati  e sublimati dall’intervento manuale che per Larsen vuol dire organizzare un lavoro complesso, articolato in più fasi: dalla sgrossatura di pezzi di lamiera di più grandi dimensioni recuperate direttamente dai depositi di rottami e lavorate in studio, alla costruzione dei singoli elementi (forme geometriche poligonali solide dalle innumerevoli declinazioni) che compongono le sculture, realizzate in legno di compensato, assemblate con silicone e ricoperte in ultimo con le lamine recuperate.
Le sculture, tutte diverse, tutti pezzi unici, sono caratterizzate da un accentuato purismo delle forme: linee curve interrotte da angoli improvvisi e attraversati da altre linee a contrasto. Proporzioni calibrate in grado di gestire le scale più diverse e di trovare nuove possibili letture in base ai contesti architettonici in cui sono collocate (una cornice, una parete, una stanza) e alle prospettive di angolazione di chi guarda, raddoppiando la volumetria nel gioco chiaroscurale di un’ombra da bassorilievo per le opere di più grandi dimensioni (spesso composte da singoli o più elementi collocati in uno spazio architettonico dal bordo fortemente aggettante) o appiattendosi sino al puro geometrismo di linee se viste frontalmente, in special modo nelle installazioni composte da elementi metallici modulari come Lined Out.
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Il percorso creativo di Larsen si avvale, in parallelo alla sua alta manualità, di una precisa costruzione mentale: la soggettivazione di opere astratte avviene attraverso l’assegnazione di un nome (e non più un codice seriale, il che esclude un processo ripetitivo), definizione che per l’artista diventa parte integrante dell’opera, spesso espressa attraverso un ossimoro di parole e senso che ne esprima l’insita dicotomia (True Fiction, Divided Unity, Active Retirement).
L’uso del colore ha un ruolo nodale: Ted ha un rapporto personalissimo col cromatismo, rapporto che affonda le proprie radici in una profonda conoscenza della storia dell’arte filtrata dal contesto socio culturale americano in cui è si è formato: evoca la funzionalità volumetrica dei colori plastici e costruttivistici e persino cinetici (da Léger a Mondrian sino a Daniel Buren), valorizza i toni primari sulla base dei grigi, ma soprattutto propone accostamenti di palette color pastello, specchiato, brillante e opaco spesso recanti i segni delle “vite” passate (lo smalto è abraso, graffiato, e crea ulteriori pattern), ben delineati da linee di fuga e contorni a contrasto, che immediatamente rimandano alla tradizione americana dei tavoli in formica, dei diner, della auto americane anni ’50.
Patchwork giocosi realizzati grazie all’accostamento di veri pezzi di recupero di metallo di scarto, restituzione di “bellezza” ad un mondo di consumismo e di rifiuti, utilizzo etico del colore per oggetti “nuovi” che diventano infinite variazioni sul tema, alfabeto fantastico e riconoscibile di un nuovo linguaggio estetico.
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Per la mostra è stato realizzato un ricco catalogo che racconta il percorso creativo dell’artista anche attraverso le immagini di sue opere precedentemente realizzate e oggi incluse in permanenza nelle collezioni del New Mexico Museum of Art, del New Mexico Department of Cultural Affairs, dell’Edward F. Albee Foundation, di Procter & Gamble, Reader’s Digest, PepsiCo, University of Miami, University of Texas, Krasel Art Center, Dreyfus Funds, JP Morgan Chase, Forbes e Pioneer Hi-Bred, Inc.

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