Una revisione costituzionale solo apparentemente minore

Benché si trattasse di una proposta di riforma puntuale e circoscritta – diminuire i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200 – le implicazioni della revisione costituzionale approvata con il referendum del settembre scorso sono di portata tutt’altro che irrisoria: investono il modo di concepire la democrazia e la rappresentanza, il funzionamento delle Camere e dei loro organi interni, la legislazione elettorale, lo svolgimento delle campagne elettorali, l’elezione degli organi di garanzia costituzionale.

La preoccupazione per il deplorevole stato della democrazia italiana – per l’incapacità di definire proposte politiche lungimiranti, per l’inattuazione di molti diritti costituzionali, per la modestissima qualità della classe politica, per l’inefficienza dell’azione governativa, per l’incapacità di instaurare un anche minimo dialogo parlamentare – era senz’altro presente in entrambi gli schieramenti: tanto in quello favorevole alla riduzione del Parlamento, quanto il quello contrario. Allo stesso modo, posizioni più o meno apertamente interessate a tutt’altro che all’oggetto del voto erano altresì presenti in entrambi i fronti: a tutela di interessi personali, a favore o contro la tenuta del governo, a sostegno di una nuova stagione di riforme, a stimolo della modifica – in senso proporzionale o maggioritario – della legge elettorale.
In buona o in mala fede che fossero, queste componenti dell’elettorato, che potremmo definire «consapevoli», si sono all’esito del voto dimostrate minoritarie. La gran parte dei votanti si è mossa secondo logiche assai più istintive, aggregandosi intorno a un irresistibile coacervo di qualunquismo, antipolitica e populismo, con l’aggiunta di un individualismo radicale alimentato dal disprezzo che, sull’onda di tanti e ripetuti fallimenti, investe oramai la mediazione politica.

Si spiega così il trionfale 69,6 per cento per il Sì alla riduzione dei parlamentari: l’emblema stesso dell’odiatissima casta che, da anni, è oggetto della più feroce, e a tratti triviale, propaganda mediatica e politica («costano troppo», «sono tantissimi», «non fanno niente», «rubano tutti»).

L’analisi del voto mostra che il No tiene solo là dove la politica ha conservato la capacità di dialogare con i cittadini: nelle zone più benestanti delle grandi città. Il Sì dilaga nei territori in difficoltà: nelle periferie urbane, nelle campagne, nelle aree interne, nel meridione. Si tratta delle parti del Paese economicamente e socialmente più depresse, quelle che soprattutto avrebbero bisogno della politica e che, invece, la politica ha colpevolmente abbandonato. O, al più, strumentalizzato, fomentandone il rancore e le paure.

È questo, probabilmente, il più dannoso effetto del referendum: avere rafforzato la contrapposizione tra governanti e governati, offrendo a questi l’illusione di poter dare, per una volta, uno schiaffo in faccia a quelli. Un’illusione liberatoria, senza dubbio, ma – appunto – un’illusione: perché colpendo la rappresentatività del Parlamento, gli elettori hanno, in effetti, colpito se stessi, diminuendo i canali attraverso cui quantomeno provare a dar forza alle proprie voci.

A ritrovarsi messa in discussione è stata l’idea stessa di democrazia rappresentativa: l’asse portante, per quanto malconcio, del nostro sistema costituzionale. L’aperto dileggio del Parlamento, espresso da Beppe Grillo ad appena quarantott’ore dal referendum (e, per di più, in una sede istituzionale di matrice parlamentare), vale a confermarlo. Altro che ridurre per rilanciare il Parlamento, come sostenuto dai fautori del Sì culturalmente più consapevoli, semmai l’esatto contrario: «non credo più in una forma di rappresentanza parlamentare, ma credo nella democrazia diretta fatta dai cittadini attraverso i referendum». Cos’altro ci si poteva aspettare, d’altro canto, da chi il 7 giugno del 2013 sul suo blog scriveva: «il Parlamento potrebbe chiudere domani, nessuno se ne accorgerebbe. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica»?

Altre significative conseguenze della riduzione del numero dei parlamentari investono le modalità di formazione e funzionamento dell’organo rappresentativo, la prima delle quali è, per mero effetto matematico, il prodursi nella legge elettorale di soglie di sbarramento implicite – cioè del tutto indipendenti da quanto stabilito nella legge stessa – molto elevate. Immaginiamo, per esempio, un collegio elettorale in cui si debbano eleggere venti parlamentari. Semplificando all’estremo le cose, è agevole rendersi conto che per ottenere un eletto occorre raccogliere almeno il 5 per cento dei voti (100 : 20 = 5). Se in un’elezione successiva i parlamentari da eleggere fossero ridotti a dieci, per assicurarsi un seggio il 5 per cento dei consensi non basterebbe più: occorrerebbe raggiungere il 10 per cento (100 : 10 = 10). Se, poi, i seggi in palio fossero ulteriormente diminuiti a cinque, la soglia per ottenere un parlamentare salirebbe ancora, sino a raggiungere il 20 per cento dei voti (100 : 5 = 20). Nella realtà le cose sono un po’ più complicate, perché alle elezioni concorrono molte forze politiche, alcune delle quali, di ridotte dimensioni, pur non ottenendo seggi raccolgono comunque una certa quantità di consensi, così abbassando la percentuale minima necessaria a conseguire un eletto.

Esattamente questo è l’effetto che si è, in automatico, prodotto con la riduzione dei parlamentari sancita dal referendum, enfatizzato dalla circostanza che deputati e senatori sono eletti non in due ampi collegi nazionali idonei a ricomprenderli tutti, ma in una pluralità di collegi di dimensioni regionali o locali. Alcuni di questi, al Senato, comprenderanno solo tre o quattro eletti; altri, alla Camera, arriveranno a sei o sette. In tutti questi casi l’effetto soglia di sbarramento implicita sarà molto rilevante, al punto che, anche considerando la “dispersione” del voto causata dalla presenza delle forze più piccole, solo chi riuscirà a superare circa il 20 per cento dei consensi al Senato e circa il 12,5 per cento alla Camera potrà sperare di conquistare un seggio.

Come ovviare a tale problema? Ampliando la dimensione dei collegi, e dunque aumentando il numero dei parlamentari eletti al loro interno, in particolare grazie a una nuova legge di revisione costituzionale che, modificando l’articolo 57, eliminerà il vincolo della dimensione regionale dei collegi elettorali del Senato attualmente sancito dalla Costituzione. Anche tale soluzione, già incardinata nella discussione parlamentare, incontra, tuttavia, una rilevante criticità: ampliare la dimensione dei collegi significa, infatti, ingrandire il territorio su cui ciascun candidato sarà chiamato a condurre la propria campagna elettorale, a tutto vantaggio delle forze politiche più grandi, meglio organizzate e in grado di accedere con maggiore facilità alle risorse economiche private con cui finanziare la campagna elettorale.

In un modo o nell’altro, insomma, la riduzione dei parlamentari incidereà negativamente sulla rappresentanza, sottorappresentando (o non rappresentando) i partiti più piccoli e, di conseguenza, sovrarappresentando quelli più grandi. E ciò – attenzione – anche qualora devesse essere approvata una legge elettorale perfettamente proporzionale, senza alcuna soglia di sbarramento esplicita. Tra le conseguenze di tale alterazione della rappresentanza, particolarmente rilevanti sono quelle che ricadranno sull’elezione del Presidente della Repubblica e sulla revisione costituzionale, che avvengono, in ultima istanza, a maggioranza assoluta, nonché sull’elezione dei giudici della Corte costituzionale e dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura di estrazione parlamentare, che avviene a maggioranza qualificata dei tre quinti.
Ulteriori effetti negativi si produrranno sullo svolgimento dell’attività parlamentare.

In proposito, occorre considerare che il Parlamento opera, normalmente, articolandosi in Commissioni competenti per specifiche materie (sanità, bilancio, trasporti, cultura, ecc.). Nelle Commissioni – che sono composte in proporzione alla composizione dei gruppi parlamentari – si discutono in via preliminare le proposte di legge, in modo che l’analisi che si svolgerà in Aula possa risultare più spedita (funzione referente). Le Commissioni possono, inoltre, sostituirsi all’Aula, approvando il testo della legge articolo per articolo ma lasciando all’Aula l’approvazione finale (funzione redigente) o occupandosi sia del voto articolo per articolo sia del voto finale (funzione deliberante: moltissime sono le leggi oramai approvate direttamente in Commissione). Le Commissioni sono, dunque, il vero “cuore” dell’attività parlamentare. Si comprende così l’importanza della partecipazione di deputati e senatori ai lavori delle Commissioni.

La riduzione del numero dei parlamentari complica il funzionamento di questo meccanismo principalmente per due motivi. Anzitutto, perché i gruppi parlamentari più piccoli si ritroveranno in difficoltà: i loro componenti dovranno essere contestualmente parte di più Commissioni e, oltre all’aggravio di impegno che ciò comporterà, in caso di riunioni contestuali di Commissioni diverse i parlamentari di tali gruppi dovranno scegliere la Commissione in cui essere presenti. Specie per i gruppi di opposizione, l’azione parlamentare ne risulterà gravemente compromessa.

Inoltre, sull’attività delle Commissioni inciderà la riduzione del numero dei loro componenti (logica conseguenza della riduzione del numero dei parlamentari). Attualmente le Commissioni sono composte da quaranta-cinquanta membri alla Camera e da venti-venticinque al Senato. Si può stimare che al Senato il numero dei componenti delle Commissioni scenderà intorno ai quindici, con la conseguenza che per la validità delle loro sedute potrà essere sufficiente la presenza, a seconda delle decisioni da prendere, di cinque membri (è necessaria la presenza di un terzo dei componenti per la resa di pareri e l’esercizio della funzione referente) o di otto membri (è necessaria la presenza della metà più uno dei componenti per l’esercizio delle funzioni redigente e deliberante).

Poiché le decisioni sono poi assunte a maggioranza dei presenti, il voto di tre o cinque componenti potrebbe risultare sufficiente. Alla Camera i numeri raddoppierebbero, ma anche in tal caso la loro entità rimarrebbe modestissima. I rischi di un deficit democratico delle decisioni sono evidenti.
Ciò che, con la riduzione del numero dei parlamentari, rischia in definitiva di prodursi nel nostro ordinamento costituzionale è una conseguente riduzione della capacità rappresentativa del Parlamento, unitamente a una riduzione della capacità rappresentativa del Parlamento unitamente a una riduzione della capacità operativa delle sue articolazioni interne.

 

Francesco Pallante

Professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino.

 

Gli effetti del referendum.