Uno dei grandi salti nel vuoto, quando siamo stati adolescenti, è stato scegliere quale scuola superiore. «Liceo o Istituto Tecnico?» equivale a chiedersi: come mi guadagnerò da vivere? che tipo di persona voglio diventare? Una domanda a cui in definitiva non era possibile rispondere allora, e che si riassumeva per comodità con un altro crudo e spaventoso quesito: «sono abbastanza intelligente per studiare il Latino?» Povero Latino!

Masticato, triturato, sputato e maledetto. Ma il lavoro di questa giovane regista torinese, Micol Jalla, che in latino ha riscritto il “Titus Andronicus” di Shakespeare, – “Vindices” andato in scena fra il 16 e il 17 febbraio al Teatro dei Ragazzi e dei Giovani – ci ha fatto ripensare a questa lingua che gli studenti affrontano dalla Riforma Gentile, ma pochi – quasi nessuno di loro – scelgono.

La lingua di Cicerone

Per quanto il Latino sia morto, la lingua di Cicerone è ancora un potente livellatore sociale. Nonostante i piagnistei fra i suoi difensori, è tuttavia presente e non sta sparendo. Quasi il quaranta per cento dei giovani italiani lo studia; oltre il cinquantacinque per cento di questi ha scelto il Liceo, quasi un milione e mezzo nel 2020. E neppure la pratica del Latino sta morendo; il Latino si studia e si diffonde. A Vicenza, per esempio,“Vindices” ha partecipato a “Thalia”, ad agosto dello scorso anno, la prima edizione del “Festival internazionale del teatro in lingua latina” promosso da Schola Humanistica. È un Istituto per la conservazione e promozione della cultura classica. Lo spettacolo si è piazzato secondo al certamen, dietro una compagnia belga “Thelemitae”, che ha portato in scena dei bambini.

La lingua di Cicerone

«Quando mi sono laureata– ricorda Micol Jalla -ho scritto una lettera ad un mio insegnante di latino, all’università, il Professor Malaspina. Oggi suona quasi come un progetto di vita, poiché allora cercavo di conciliare due passioni: il teatro e le lingue classiche. Mi condivise questo bando dove si richiedevano spettacoli in latino originali. Non volevano Seneca o Terenzio, ma qualcosa di nuovo».

Il progetto è dunque approdato al Seminario di Ermanno Malaspina, che detiene la cattedra di “Lingua e Letteratura latina” all’Università di Torino. È stato scelto Tito Andronico. Poi è venuto un lavoro di profilazione linguistica: le scene riscritte tramite un gioco di rimandi a modelli letterari classici. Le parti del generale Tito provengono dal lessico della tragedia senecana; gli innamorati parlano la lingua di Ovidio.

Memorizzare il copione non ha richiesto agli attori (Deandrea, Dughera, Giordano, Giurlanda, Romeo, Valentino) soltanto un lavoro di precisione grammaticale; il Latino ha una melodia propria, che a scuola è difficile orecchiare. Quando ripensiamo all’ora di Latino il momento più musicale che ricordiamo è il coro delle declinazioni. «Rosa, rosae, rosae…». Ma quale musica?

Se c’era qualcosa di ludico era nei calembour, nelle storpiature, nei giochi di parole: quanto questa parola suonava come una volgarità; quanto poteva essere fantasiosa quella traduzione del compagno (qualcuno mi disse che “Carpe diem” era stato tradotto con “oggi pesce”). Ma quanti erano quelli che sceglievano il Liceo, per spontanea curiosità nelle lingue classiche?

Ci si iscrive al Linguistico per il francese che ha iniziato alle scuole medie; oppure perché è affascinato dallo spagnolo, dal tedesco. E quelli che scelgono il Latino… Quale ipocrisia! Fra gli iscritti al liceo, si studia Latino per stare nella Scuola Superiore e competere un domani sul mondo del lavoro. Così al primo scoramento dello studente, i genitori attaccano con il Verbo dell’insegnante. Che il Latino allena la mente; che è nutrimento per il corpo e per l’anima. Un grande lavaggio di testa collettivo ha scambiato la filologia classica con il Sudoku, l’Enigmistica. Il Latino si studia per conformismo.

«In Filologia, quando conosci la lingua e lo stile di un autore, il contesto letterario in cui scrive, e riesci a ricostruire il testo, ti senti un mago– confessa Micol Jalla –Ma non credo che questa sia la mia strada. Oggi credo di più nel Teatro».

Ma cosa si può consigliare agli studenti che affrontano il Latino? Di mollare le antologie e le grammatiche, e scegliere strada meno battute? Il rifiuto del Latino suonerebbe allora come il rifiuto della lingua dei padri, che sono i fautori delle carriere dei loro figli, e del loro vecchio mondo, patriarcale e competitivo (A Lorenzo Valla si attribuisce la considerazione:«il principale merito dei nostri padri, che li ha assimilati agli dèi è l’aver distribuito ai popoli la lingua latina»).

Certamente sì, allora, si dovrebbe mollare il latino: ma soltanto se si studia per conformismo, per omologazione. Altrimenti si dovrebbe sceglierlo, come si scelgono la poesia o la musica. Una volta interrogato su cos’è la poesia Caproni rispose che non è la ricerca di qualcosa, di significato, di senso della vita. La poesia è ricerca stessa. Proviamo dunque a pensare il Latino come una scelta. Non una scelta dei genitori per i figli, non una scelta dei figli per il proprio lavoro, per il proprio futuro. Il Latino è la scelta della scelta.

Fabrizio Artero