Il clima ci riguarda. Un’inchiesta di GazzettaTorino

Per avere una visione più chiara possibile dell’emergenza climatica in atto, abbiamo interpellato Dario Padovan, professore associato di Sociologia all’Università di Torino, perché i suoi insegnamenti spaziano tra i corsi di Sociologia del cambiamento climatico, Sociologia dell’ambiente, Sistemi sociotecnici e ambiente e un laboratorio dedicato alla costruzione degli scenari futuri.

Il Professore ha accolto le nostre domande, restituendo una articolata riflessione arricchita da una notevole quantità di informazioni che per ampiezza abbiamo sviluppato in quattro articoli, interconnessi tra di loro, ma ciascuno con una forte identità argomentativa.

Dario Padovan - professore associato di Sociologia all'Università di Torino.

Il professore Dario Padovan

La quinta risposta dell’esperto è una riflessione sulla grande responsabilità delle università nel guidare gli studenti verso un pensiero critico e le contrapposte modalità con le quali stanno affrontando la sfida dei cambiamenti ecologici.

Da che parte stanno l’università e il suo corpo docenti? Gli insegnamenti universitari guidano la formazione del pensiero critico degli studenti, pertanto, hanno una grande responsabilità nei confronti della società.

Sono d’accordo che le università hanno una grande responsabilità nel guidare gli studenti verso un pensiero critico, che è purtroppo quello che oggi scarseggia profondamente. Occorre dire che esiste una per così dire “comunità epistemica” fatta da studiosi e studiose che stanno offrendo numerose interpretazioni e visioni critiche delle modalità con le quali si sta affrontando la sfida dei cambiamenti ecologici globali. Non mancano tuttavia le differenze e le contrapposizioni all’interno del mondo accademico. Anzi queste sono la normalità del tempo che viviamo. Per esempio, parlando di giustizia energetica e ambientale può capitare – come è capitato – che alcuni studiosi presentino la giustizia energetica come un concetto diverso da quello di giustizia ambientale o climatica, perché “libero da un’ottica attivista“.

Per costoro, questa è una virtù, una caratteristica positiva della giustizia energetica, perché libera dall’ingenuità dei gruppi di attivisti e dalle loro richieste di trasformazioni radicali del sistema. Secondo loro, è positivo che la ricerca sull’energia sia guidata e strutturata da economisti e/o politici che evitano di promuovere richieste ingenue o “impossibili“.

C’è da chiedersi allora se la giustizia energetica, così come la giustizia ambientale o climatica, non consista anche nell’ascoltare la domanda delle persone per un sistema più equo, come è accaduto di recente con l’aumento catastrofico del costo finale dell’energia elettrica e termica. Gli obiettivi dei ricercatori sulla giustizia energetica/ambientale non sono forse anche quelli di attirare l’attenzione sulle disuguaglianze e sullo sfruttamento ed estrattivismo che derivano dalle dominanti visioni della transizione ecologica?

Il capitalismo cerca di risolvere la crisi climatica da lui stesso provocata attraverso il “capitalismo verde”, ma questa prospettiva induce ulteriore consumo di natura, espande l’estrattivismo individuando nuove frontiere delle merci e creando nuove zone di sacrificio che in ultima analisi cercano di perpetuare l’accumulazione attraverso la semplificazione radicale dei paesaggi e l’imposizione di forme di sviluppo simili alle vecchie economie delle piantagioni. Anche quando le persone non usano questo linguaggio, si può vedere che il capitalismo è molto più di un sistema economico, ma che è di fatto un ordine sociale istituzionalizzato che organizza le persone e i luoghi per sostenere una crescita economica perpetua, un processo che è diventato sistematicamente sempre più violento.

 

Ma allo stesso tempo, nelle università si sviluppano molti altri modi di vedere le cose, molto più radicali e proiettati verso cambiamenti reali non solo ecologici ma anche sociali. Faccio solo un esempio. All’orizzonte della stasis, della guerra tra natura e società e nella società tra oikos e polis, si profila la riconciliazione, ossia una civilizzazione ecologica che potrebbe fornire un orizzonte di ireniche relazioni tra il sociale e il naturale e nel sociale stesso.

Qui l’oikeios diventa la matrice che permette la riconciliazione di ciò che ha diviso, il fondamento sul quale si ricostituisce un orizzonte di cooperazione e mutualità. Alla crisi climatica ed ecologica globale e alle conseguenti “guerre civili” che ne derivano per conservare privilegi grandi e piccoli e continuare ad appropriarsi (in modo diseguale e iniquo) di quanto resta del capitale naturale e della biocapacità della Terra si contrappongono varie proposte di “alternativa ecologica”.

Pongo l’attenzione sulla prospettiva della ecological civilization (EC), così come suggerita da alcuni filosofi come, per esempio, Arran Gare, che costituisce una prospettiva potenzialmente ricompositiva dei diversi filoni dell’ecologia politica che si sono fino a questo punto diramati a partire da punti di partenza diversi, differenti, a volte opposti.

L’EC suggerisce di ripensare le conflittuali relazioni fra natura e società, per dare corpo a una radicale transizione ecologica. Qui non si tratta di delineare semplici, ingenue ma più spesso ingannevoli misure tecniche utili per contenere le disarmonie delle relazioni eco-sociali dispensate da una miriade di nuovi arruolati nel campo della sostenibilità.

Si tratta piuttosto di delineare un frame discorsivo – qualcuno direbbe narrativo – delle differenti azioni, pratiche e politiche necessarie a sostenere e accelerare la transizione verso una società ecologica. La civiltà ecologica si pone in radicale alternativa alla cosiddetta modernità. L’attuale civiltà forgiata negli ultimi cinque secoli sotto lo spietato tallone del capitalismo globale giustificato dalle necessità del dominio sulla natura che sta mettendo in pericolo l’intero pianeta. Nelle sue formulazioni più radicali, la civilizzazione ecologica sostiene una visione del futuro costituito da un ordine mondiale di comunità che sostengono il federalismo democratico, liberando e permettendo agli individui e alle comunità di vivere in modo da aumentare la vita degli ecosistemi di cui fanno parte, compresi gli ecosistemi umani.

Antonella Cappiello