Maurizio
Allora, Maurizio spiegami il fuorigioco.
“Vede professoressa, Se l’attaccante si trova oltre l’ultimo uomo della linea difensiva (se ha tra sé e la linea di fondo solo il portiere), oltre la linea del pallone, e non ha il possesso della palla, allora è in fuorigioco”.
Maurizio muove i personaggi del suo campetto di calcio, realizzato in scala 1:250. Sugli spalti le bandierine di Italia-Argentina. Le stesse bandierine che servono per i cocktail, spiega.
Ha gli occhi azzurri, Maurizio. E’ di corporatura robusta. Le mani grandi e tozze. Ti guarda, attento. Ha preparato il plastico lavorandoci per una settimana buona.
“Come lo hai realizzato?”, lo incalza la giovane professoressa di educazione fisica. I capelli corvini, lisci le sfiorano le guance abbronzate; tradisce uno sguardo fiero.
“Lui si illumina e le risponde”. “Ho comprato un foglio di erba sintetica al Guercio. Ad Orbassano. Una mia amica mi ha aiutato ad incollarlo su questo pannello di compensato, ho creato i giocatori ispirandomi al Subbuteo. Quel gioco che teneva in cantina mio padre…”
Nella tesina Maurizio racconta del rapporto fra Italia e Argentina. I suoi nonni vivono ancora laggiù, nella Terra del Fuoco. Tratteggia in un inglese sicuro la guerra delle Falkland: Leopoldo Galtieri, Margaret Thatcher, la task force navale, l’assalto anfibio. La professoressa di inglese non lo guarda direttamente negli occhi per non tradire la commozione che le suscita. Lui, ragazzino certificato come dislessico. Eppure capace di sintetizzare così bene il ginepraio delle Falkland…
 
Chiara
Chiara è la seconda candidata della mattinata. Una tredicenne con i capelli rossi, stretti in una coda di cavallo, che si è appassionata della lingua coreana guardando un episodio  di Korean High School Musical.
Ai professori mostra un quadernone con i caratteri Hangul e poi si esibisce in una performance canora che lascia tutti sbigottiti.
Canta,  Chiara, a cappella e con sotto una semplice base. Le note rimbalzano sulle sedie dei docenti. Tutto trema, tranne la sua voce appassionata.  L’applauso finale scatta immediato, lei lo accoglie con lo sguardo stranito, stringe le spalle. Come se avesse fatto la cosa più semplice del mondo. Non granché.
“Ora parlerò della guerra di Corea…” prosegue consegnando sicura le copie della sua tesina ai membri della commissione…
 
Stefan
Stefan ha scelto la cultura hip hop. L’insegnante di Lettere, con un velo di compiacimento, gli chiede di giustificare il collegamento fra il rap e Palazzeschi.
Tri, tri tri
Fru fru fru,
uhi uhi uhi,
ihu ihu, ihu.
Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente.
C’entra professoressa, le risponde sicuro. I grandi occhi nocciola di lei sorridono della forza spavalda e innocente con cui le risponde. Mentre lo guarda, annuisce soddisfatta e sorpresa.
Nel Manifesto del Futurismo ho capito che volevano rompere con la poesia tradizionale, cercavano un nuovo suono, la velocità, la forza, il gusto per il pericolo.
Ecco. Anche i rapper sono così. Anche io sono così, professoressa. Sono un futurista secondo lei?
 
Fernando
Fernando vuole fare il meccanico. Il suo colloquio d’esame inizia con lui che apre una scatola.
La scatola contiene i pezzi di un motore. Fernando lo smonta e rimonta con destrezza di fronte alla commissione. Le dita lunghe e affusolate lo toccano come se si trattasse di un oggetto familiare, consumato dall’uso.
Mentre lo accarezza ne spiega il funzionamento. Non nasconde, Fernando, il sano orgoglio di poter dire finalmente, dopo quattro anni, qualcosa che conosce bene e che lo appassiona sul serio.
Le domande dei professori fioccano. Cosa vuol dire grippare, dove sono le fasce, a cosa servono, dove sono i pistoni e il cilindro…
Richiusa la scatola Fernando inizia a parlare di fascismo. Di nazismo. Di leggi di Norimberga, di soluzione finale. Ricorda la mostra che i suoi compagni hanno organizzato a scuola. La mostra sulla Shoah.
Quelli bravi in storia, dice, l’avevano spiegata di fronte al Preside e alle autorità. Lui aveva ascoltato. Un po’ scocciato e in ultima fila.  Eppure adesso le cose le ricordava. E, stupito di se stesso, le stava esponendo senza paura di fronte ad un semicerchio di insegnanti attenti.
Ora che ci pensava c’era anche Fabio fra i relatori della mostra. Fabio che quella mattina sarebbe passato dopo di lui. Fabio, il primo della classe.
 
Fabio
Fabio con la camicia a scacchi azzurra tiene in mano un planisfero di cartapesta. All’Italia manca la Liguria. Le zone desertiche sembrano più estese. E’ la Terra nel 2500, spiega, adagiando il mappamondo su un piedistallo in plexiglas, sopra il banco posto di fronte ai docenti.
Fruga nel suo zaino ed estrae la tesina. Un lavoro monumentale, così bisbiglia la professoressa di Lettere alla collega che le è seduta accanto.
Qual è il titolo del tuo approfondimento? Le metamorfosi di Kafka.
Cosa ti ha colpito del racconto? Gli occhi di Fabio si illuminano, sono una finestra spalancata sul suo mondo interiore, travolto dall’inizio dell’adolescenza.
“Gregor si accorge di essersi trasformato in qualcosa di repellente. Senza poterlo scegliere, si ritrova nel corpo di un insetto senza  più parola.
Quando muore per i genitori sarà un sollievo…”
Fabio esce dal terreno della letteratura e si muove con sicurezza tra le metamorfosi diacroniche della lingua italiana ed inglese. Sciorina a memoria i Placiti Cassinesi. “Sao ko kelle terre…”, elenca le parole inglesi di origine celtica, anglosassone, latina, normanna. Ecco, dice quasi placido, non solo gli uomini e le lingue subiscono metamorfosi. E’ il momento di rivolgersi al professore di Scienze, gli  elenca le trasformazioni della crosta terrestre, giustificando le mutazioni future  che ha previsto sul suo planisfero  di cartapesta.
Il professore, quarant’anni di cattedra, dietro alle lenti rotonde annuisce, strizzando gli occhi celesti ed accennando un sorriso tra il sornione e il compiaciuto.
Puoi andare adesso Fabio. Tornaci a trovare il prossimo anno.
 
Maria
E’ difficile salutarsi dopo esami così. Si vorrebbero prolungarne gli istanti. Eppure tutto scorre.
La luce obliqua del pomeriggio tocca la superficie della cattedra, i banchi, i cartelloni appesi  con le puntine colorate. I raggi fendono le particelle di polvere che galleggiano nell’aula vuota.
Fuori dalla scuola sono appesi gli esiti degli esami. Quasi tutti i ragazzi li attendevano trepidanti. Il giorno stesso in cui le insegnanti li avevano affissi erano comparsi in massa, rumorosi, come una serie di nuvole tuonanti.
Maria invece ha atteso il giorno dopo. E’ apparentemente calma mentre guarda quei numeri con gli occhi grandi e verdi che sembrano un obiettivo fotografico.
Indugia in piedi e in silenzio nel cortile antistante la scuola e saluta con un breve cenno del capo l’ultima professoressa che, carica di scatoloni, si avvia incerta verso il cancello aperto.
 
 
Silvia Scarrone 

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