Andavano a fare la spesa insieme. Parcheggiavano le automobili negli appositi spazi contrassegnati. Si ritrovavano davanti alla pila di carrelli e si scambiavano le monetine necessarie a prenderne uno.
Non capitava mai che se le restituissero quelle monete. Era un tacito accordo. Nessuno menzionava il prestito.
Impilavano sciarpe, cappelli, guanti e giacche pesanti nel carrello. Ne usavano uno come se fosse naturale andare a fare la spesa insieme. Come se fosse la cosa più semplice da fare. Solo che si conoscevano da due mesi. E lui era sposato.
Attraversavano le porte scorrevoli dei supermercati velocemente. Lui si guardava intorno. Osservava sempre tutto. Aveva occhi verdi decisi a tenere tutto sotto controllo.
Le camminava accanto schermandola, se fossero stati su un palcoscenico l’avrebbe impallata e così facendo il pubblico non l’avrebbe vista. Era deciso a tenerla fuori dagli sguardi indiscreti, non voleva che nessuno li riconoscesse, li fermasse e chiedesse loro conto.
Avevano stabilito quell’abitudine da due mesi. Bastava che lei componesse il suo numero, che lui la sentisse triste e la giostra si metteva in moto.
Un semplice moto perpetuo, sembrava.
L’entropia spingeva le loro vite, le loro auto, le loro gambe fino alle porte scorrevoli dei supermercati che si aprivano per accoglierli. Pieni di luci e colori sgargianti.
Non era fare la spesa. Lo sapevano bene ma continuavano a ripetersi di aver bisogno del latte, della focaccia, dei biscotti integrali. “No quelli costano troppo, compriamone degli altri.”
Uno accanto all’altra a scegliere generi alimentari che sarebbero finiti su ripiani diversi. In due cucine diverse, su due tavole diverse. In due diverse cittadine. Attigue, entrambe nella provincia torinese, una a pochi chilometri dall’altra. Ma inesorabilmente diverse.
Ridevano sempre quando stavano insieme. Ogni cosa era motivo per sbellicarsi. Un signore con una cravatta a pois, una verdura dal nome impronunciabile per lei topinambur, una signora anziana fresca di parrucchiere e dall’acconciatura violacea.
Lui era capace di farla sorridere su ogni sciocchezza e lei, sostenuta dai suoi venticinque anni, arrivata a Torino da poco, emigrata dalla Sicilia per fare la maestra nella cintura torinese, aveva bisogno di sentire quel calore e non le importava granché che quell’uomo fosse sposato e avesse 20 anni in più.
Si erano ritagliati un tempo fatto di istanti intensi. Almeno a lei pareva così. Quando stava con lui, quando lo chiamava al telefono, quando gli cantava i White Lies, si sentiva trasportata dentro una bolla di sapone, le sembrava di sfiorare la stella della Mole Antonelliana, la cupola della Gran Madre, le Torri Palatine, le pareva di raggiungere persino le cime delle Alpi innevate che facevano da corona alla città.
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“We’ll head south, just hold my hand now. I feel like I’m casting off my clothes and I’m running through the snow towards the sunset and I’m always with you.”
Erano dentro quella bolla di sapone, fuori dal tempo, lo spazio non li toccava. Non sentivano le voci provenire dal mondo di fuori.
Una volta al supermercato avevano posteggiato le auto in un parcheggio rialzato.
Al ritorno, carichi di borse, se ne stavano sotto un cielo gonfio di nuvole rosse; l’aria novembrina era frizzante e umida, non sapevano cosa dirsi e continuavano a perdersi, a stare in attesa uno negli occhi dell’altra.
Goffamente lui aveva preso l’iniziativa, aiutandola a caricare le borse della spesa nel bagagliaio. Quando le disse vieni a casa mia, sembrava la cosa più naturale al mondo, l’esito scontato.
Lei si aspettava quell’invito e lo temeva al contempo. Tutto sembrava liscio e naturale, mentre – protetti da un’inconsistente bolla di sapone- si dirigevano verso la stessa via.
Mentre guidava su corso Traiano, le foglie stropicciate sull’asfalto, chiazze di carminio, d’oro vivo, di bronzo le vorticavano intorno. Al semaforo le fissava assorta.
Le mani bianche di lei, meccaniche, in attesa che scattasse il verde avevano preso il biglietto da visita: il nome di lui, il suo numero di telefono, il suo indirizzo, sillabe desiderate, lucide su un cartoncino nero.
Lo teneva in mano, quel cartoncino, aveva abbassato il finestrino e iniziato con movimenti lenti, poi sempre più veloci a strapparlo, l’aveva reso coriandoli di pece e li teneva in pugno.
Lasciò la presa e partì senza indugio. Sarebbe tornata a casa.
Silvia Scarrone

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