Come ogni mercoledì, il professor T. attraversava il corridoio in linoleum verdastro di Palazzo Nuovo.
Come spesso accade a fine ottobre, Torino era avvolta da una pioggerellina che sembrava rivestire tutto di una patina d’acqua sottile. La Mole, il Palazzo dell’Università di via Po 14, la chiesa di San Francesco da Paola erano diventati ombre, i fantasmi di loro stessi; sembravano imprigionati dalle insistenti gocce che ricamavano tutt’ intorno un lungo reticolo trasparente.
Le suole delle scarpe del professor T. cigolavano sulla superficie resiliente del buio e lungo corridoio che lo separava dall’aula 2, dove avrebbe tenuto la sua consueta lezione settimanale di letteratura americana.  Portava a tracolla una grossa borsa, in cuoio nero, nella mano sinistra reggeva l’ombrello azzurro che lo aiutava nel suo incedere, nascondendo il lieve difetto congenito di una gamba leggermente più corta dell’altra. Il professor T. aveva con sé il vecchio grammofono di suo padre, che era morto tre anni prima, perché voleva far ascoltare agli studenti Charlie Parker e il bebop.
Desiderava che in aula si percepisse il suono così come si diffondeva allora, negli anni cinquanta, nelle camere sudicie dove vivevano i poeti beat, beati e sconfitti, aveva chiarito durante uno dei suoi lunghi monologhi ipnotici rivolti ad un pubblico in religioso silenzio.

Ad aspettarlo, seduta al primo banco, con in mano la raccolta di poesie di Ginsberg, i Cosmopolitan Greetings, con i capelli corti sfumati sul ciuffo da una nota rossiccia, le unghie laccate di rosso, gli occhi grigioverdi, stava lei: Allegra.
Difficile portarsi dietro quel nome, era come avere un gigantesco smile tatuato in fronte.
Allegra, come mai sei triste?
Dai, che so come farti sorridere di nuovo.
Allegra, ma i tuoi che pensavano quando ti hanno concepito, eh?
E così via, di battuta in battuta. Lei ci era abituata, faceva spallucce, scuoteva la testa, e mandava tutti a quel paese. Con una smorfia e arricciando il naso.
C’è poco da stare allegri, sta arrivando, sento il passo trascinato, eccolo che sta scendendo le scale…
Tommaso, il suo vicino di banco, la stava avvertendo di qualcosa che lei sapeva già. Era allenata a riconoscere ogni movimento compiuto dal professore. L’avrebbe individuato tra la folla, anche se fosse stata cieca.
Buongiorno ragazzi. Un grammofono. Lo sapete di cosa sto parlando? Un gram-mo-fo-no.
Iniziava la lezione così, sempre in medias res, con fare teatrale. Si affacciava, a braccia larghe e sguardo di un azzurro intenso, dalla porta che dava sull’aula 2. Si passava le dita affusolate tra i capelli grigi, scendeva le scale e, sempre parlando, poggiava le borse solitamente cariche di testi sulla cattedra. Oggi, l’unica borsa era la custodia in cuoio di un fonografo degli anni trenta.
Vi ricordate, l’ultima volta avevo accennato dell’influenza del bebop sulla poesia della Beat Generation?
Oggi ascolteremo chi, forse più di tutti, ha contribuito alla nascita del bebop: Charlie Parker.
E non useremo l’elettricità per fare questo. Spegneremo le luci per ricreare, almeno parzialmente, l’atmosfera di quegli anni. E useremo questo: il fonografo o grammofono. Servirà solo la cinesi prodotta dal mio avambraccio. E questa manovella.
Si alzò dalla sedia girevole di un azzurro consunto, e spense tutte le luci.
E azionò il marchingegno.
Le pupille degli occhi di Allegra si dilatarono di colpo, e incontrarono lo sguardo ipnotico del professor T.
Avrebbe voluto alzarsi, prendere il coraggio in mano, e, in quel silenzio buio, avrebbe voluto cingerlo e sfiorare i suoi capelli con le mani, e sciogliergli la coda di cavallo e mettergli una mano sul viso, così come farebbe una madre, ormai diventata cieca, per riconoscere i tratti del volto di suo figlio.
Ma rimase immobile.
E intanto Charlie Parker, con tutto il fiato che possedeva in quei polmoni d’ebano, suonava, con le note sincopate e velocissime che Now is the time, Now is the time, Now is the time, the time, the time, time …
La puntina del fonografo si era inceppata su un Sì, il rumore sporco come il graffio di un gatto su uno specchio, si amplificò facendo ritrarre con uno scatto tutti gli astanti.
Per qualche minuto, quel Sì continuò a stridere sul giradischi, senza che nessuno facesse niente. Né che osasse alzarsi per accendere una luce. Si aspettavano tutti che il professore sapesse come agire ed erano certi che presto sarebbe accaduto qualcosa.
Nel buio dell’aula 2, le gocce di pioggia rigavano i finestroni, correvano a schiantarsi sulla base della vetrata. Era una gara, la loro, per chi fosse arrivata prima all’appuntamento con la morte.
Ad un certo punto, si sentì un ragazzo alzare la voce e scambiare due secche battute con la sua compagna di banco.
Allegra, io mi alzo e accendo questa cazzo di luce!
Non esiste -che sto ancora qua al buio a sentire un diamine di grammofono – che mi perfora i timpani per dar retta ad- un -pazzo -che vuole tornare indietro nel tempo. Tanto, indietro non si torna.
Tommaso, non osare farlo. Romperai tutta la magia che si è creata in questi istanti. Non te ne rendi conto?
Allegra, ora piantala. Mi sembri posseduta!
E così, Tommaso si alzò per far luce su quella aula catartica.
E fu il primo a soccorrere l’uomo accasciato accanto al grammofono.
Il professore aveva la testa riversa sulla cattedra, le mani penzolavano inerti lungo i fianchi. Sulla fronte, copiose perle di sudore freddo.
Furono i medici delle Molinette a stabilire con certezza la causa della sua morte.
Arresto. Cardiaco. Be. Bop.
Kaddish for Naomi Ginsberg
Strange now to think of you, gone without corsets and eyes, while I walk on the sunny pavement of Greenwich Village. Downtown Manhattan, clear winter noon, and I’ve been up all night, talking, talking, reading the Kaddish aloud, listening to Ray Charles blues shout blind on the phonograph.
Silvia Scarrone
 

Bei Erektionsstorungen muss irons sich behandeln lassen aqui und bei Infantilismus ist es das, was es ist.