ATLANTIDE, di Yuri Ancarani. Dopo il Festival di Venezia al Mambo di Bologna.

Miracolo quando il cinema italiano si allontana dagli attici pariolini o trasteverini e racconta realtà italiane nascoste, appartate, o addirittura sconosciute.

Il videoartista, stavolta regista a tutti gli effetti, Yuri Ancarani osserva entomologicamente una tribù di giovanotti lagunari come fossero degli esotici pescatori di perle: vivono alla giornata, sfrecciando coi loro barchini a 80 km orari tra le isole e le barene a nord di Venezia, bivaccando per consumare i riti giovanilistici del sesso, della droga e della musica trap ai margini del cimitero di San Michele o sull’isola di Sant’Erasmo.

ATLANTIDE, di Yuri Ancarani.

Ancarani non giudica, né vuole fornirci una nuova agiografia della gioventù emarginata dalla città storica dove è in atto il tramonto di un Occidente non più in grado di offrire i codici riconoscibili di una garanzia di futuro, ma si limita a restituire con inquadrature di suprema e minimale eleganza l’umanissimo vuoto di una generazione abbandonata a se stessa che giorno per giorno ordisce da sé il tracciato dei propri mondi emotivi, e canta, come nella trap dei titoli di coda, ‘vogliamo vivere, vivere‘ mentre l’obiettivo della macchina da presa inclinato di 90 gradi avanza sotto le arcate dei ponti che unite al proprio riflesso nelle acque dei canali disegna una serie escheriana di uteri dove tornare per scomparire, risospinti da un disincantato e inconsapevole cupio dissolvi.

ATLANTIDE, di Yuri Ancarani.

L’acqua alta ciclicamente sommerge la città senza che mai si comprenda se si tratti di una rigenerazione o di una sepoltura. Una morte a Venezia scandita dalla straordinaria sequenza finale che omaggiando il viaggio oltre l’Infinito del 2001 di Kubrick offre, di una delle più iconiche e fotografate città del nostro Pianeta, una visione trasfigurata e psichedelica assolutamente inedita e stupefacente.

 

Anton Giulio Onofri