Pensavo al giorno in cui entrerai anche tu da quella maledetta porta, dopo averci guardati tutti da fuori, con quel solito sguardo beffardo, e incomincerai a recitare.
Forse ti fermerai a raccontare qualche stralcio di testo, che probabilmente fino al giorno prima identificavo in qualcosa che avevo sempre odiato, o qualcuno. Fino a quando quelle stesse parole non usciranno dalla tua, di bocca. E allora sarà diverso. Perchè sarà come se quelle parole non fossero più di un altro, ma tue.
Come quel dettaglio del mare. Riuscivo ancora a ricordarmi dopo mesi, i perchè che circondavano ancora sparsi, il mare. Del bambino che eri stato. Senza mare. Non che ci fosse alcuna differenza tra una vita con o senza. Io lo avevo vissuto, e ora faceva parte di quei ricordi da cancellare. Come era starci lontano? E perchè, ancora perchè mi ricordavo quell’unico dettaglio di te? Fino a dodic’anni non avevi visto il mare, ed era quel dettaglio a renderti così meraviglioso.
Oggi avevi una bicicletta, riesci a recitare sulla bicicletta?
attore Nel mio piccolo cosmo tu avevi comprato una bicicletta perchè io ne avessi poi parlato. Come tutte quelle manie che ritrovavo in te: uno specchio. Le pellicine che si strappano con forza, Fante, tutti quei libri, le lingue straniere, Milano, Bologna, le montagne. Perchè dovevo avere a che fare con te, quando potevamo benissimo continuare ad essere due stranieri?
Io non ti avevo notato, non sapevo chi fossi, cosa facessi, o come tutti questi punti comuni potessero farmi perdere la testa. Io non salutavo nessuno. Per anni non ho salutato persone che conoscevo da quando ne avevo due. E la mia maledizione dovevi essere tu. Tu che non saluti mai, che non fai altro che massacrarti le mani. Sono io allo specchio. C’era una riga, di una qualsiasi canzone che non mi ricordo più. Diceva che tutto questo non sembrava giusto, perchè io potevo amarti molto di più di così. Continui a scappare, e io continuo a vedere la tua sagoma entrare da quella maledetta porta. Non credo tu volessi fare l’attore nella vita, eppure continuo a vederti attorno al tavolo, a recitare in silenzio. C’è una brutalità elegante, e un susseguirsi di parole meravigliose che il mio cervello deciderà di indirizzare a me. Sono così ossessionata da te che ogni gesto, ogni battito di ciglia, ogni movimento delle mani grandi, ogni pedalata, sono convinta che siano rivolte a me. Continuo a sbagliarmi, e ad andare avanti con le mie convinzioni. Mentre le tue si devono essere fermate in quel 22, in cui ogni mio movimento ha deciso di dimostrati il contrario di tutto e di spingerti a non tentare nemmeno. Inconsapevolmente ti spingevo via, lontano, come se la distanza potesse farti capire che eravamo diversi, che io non ci sarei mai stata, che non ero un obiettivo da seguire e che non ne valeva la pena. Volevo essere l’unica cosa di cui avevi bisogno, ho fatto di tutto per non esserla. Sei già nella stanza, quando tutti stanno ancora parlando. Perchè continuo a vederti dove non sei? Ti muovi piano, spostandoti tra una sedia e l’altra. Guardi tutti tranne me. Riesci a farti amare così tanto che distrugge. Non me, ma qualsiasi cosa ci sia intorno. Ho il mare in testa, non riesco a cancellarlo. Come le storie di tende, scalate e madri preoccupate. Io non ho coraggio, e tu nemmeno. Tu sei pazzo. E io sono fuori di testa.
Non riesci a sostenere quello sguardo per più di un secondo, a volte nemmeno provi a cercarlo. Se riesci a dire un “ciao” lo rivolgi al pavimento che lo rimbalza contro di me. Devo ricordarmi di respirare, quando sono sola, quando sei davanti a me, quando continui a scappare, quando mi ignori, quando ti volti, quando fingi che io non esista. Devo continuare ad impormi di non fare domande, e di smetterla con la ricerca delle risposte. Sono parole al buio, cinque mesi di parole nascoste. Devo ricordarmi di smetterla di scrivere di te, di vederti in mezzo ad ogni folla, di credere di riconoscere i tuoi occhi e la tua barba. Avrei voluto dirti di non farlo, di non tagliarla mai.
Spero che ti faccia notare qualcuno come me: ad un concerto, in un cinema, in una piazza, in un hotel, su un aereo, in un ristorante, ovunque tu vada. Nota qualcuno come me. Ripensaci. A quando un americano ti ha dato una stupida carta da gioco, e un cinque di picche ti ha fatto incontrare la ragazza che avevi già notato. Sono pronta adesso. Non la ero in quel giorno di ottobre. Non ero pronta a te, alle somiglianze, a questo gioco ridicolo, ai non saluti, alla bicicletta, all’immagine di te sotto casa mia, alla tua schiena appoggiata ai davanzali, alle orecchie tese ad ascoltare,  alla testa che si volta dall’altra parte, agli occhi fissi puntati sulla mia, delle schiene, alle non risposte, alle altre attrici, al traffico, al pane. Non ero pronta a te. Così semplicemente in grado di distruggermi, in modo diverso. Usando le mie stesse armi. I miei stessi giochi. Era iniziata nei primi freddi, non sono ancora riuscita a chiuderla. È tutto ancora troppo vivo. Mi ricordo ancora  bene i maglioni, le luci, i passi, gli scontri. I silenzi. Il cappello rosso. Continuo a leggere tutto quello che scrivi. Maledizione. Sei bravo. Sei maledettamente bravo. Continuo a pensare a scene di fogli, lasciati sul materasso, sparsi a caso, alle macchie, e alla tazza di caffè che mi  avresti portato. Sapevo che ti interessava il mio giudizio. Come sapevo di averti attirato e poi fatto scappare. È come se ancora una volta lo avessi fatto apposta: tu scrivi, recensioni concentrate e affascinanti, io dormo e penso. Alle parole di DeLillo, a quelle di finzione, e forse ogni tanto anche a qualche parola che mi sono persa ignorandoti.
 
Laura Pioli
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